Il Ministero e la vita dei presbiteri

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Testo del Card. Joseph Ratzinger pubblicato da clerus.org, come da costume di quel sito senza data ne’ fonte.  

Riflessioni preliminari


Quando i padri del Concilio Vaticano II prepararono il decreto sul ministero e la vita dei presbiteri – dopo i dibattiti intensi sul ministero episcopale e le importanti dichiarazioni sia sulla posizione dei laici nella Chiesa che sulla vita religiosa -, avevano soprattutto l’intenzione di rivolgere una parola di incoraggiamento anche ai sacerdoti, che giorno dopo giorno portano il peso del lavoro nella vigna del Signore. Certamente, per un tale proposito non potevano accontentarsi di qualche pia esortazione. Dato che i vescovi avevano illustrato il significato del loro ministero e il suo fondamento teologico, anche le parole da rivolgere ai presbiteri avrebbero dovuto distinguersi per profondità teologica. Solo in questo modo sarebbero riuscite ad essere sia un riconoscimento convincente della loro attività che un incoraggiamento per le loro fatiche.


Ma tali parole ai sacerdoti furono necessarie non soltanto per motivi di una certa proporzione fra gli “stati” nella Chiesa. Quando i padri evidenziarono lo specifico significato del ministero episcopale nella sua relazione con il ministero del successore di Pietro, potevano essere sicuri di un ampio consenso da parte della opinione pubblica sia nella Chiesa che nel mondo ed anche, in particolare, nell’ambito ecumenico. Il concetto cattolico di sacerdozio invece aveva perso la sua ovvia validità, anche all’interno della coscienza della Chiesa. Certamente, la crisi di questo concetto, diventata visibile subito dopo il Concilio, e che poi sarebbe divenuta la crisi della esistenza presbiterale e delle vocazioni al sacerdozio, in quel tempo non era ancora completamente sviluppata, ma era già avviata. Essa risultò, da una parte, da un mutamento del senso della vita, in cui sempre meno si comprendeva il sacro, mentre il funzionale veniva elevato a categoria esclusivamente determinante. Dall’altra parte, però, questa crisi aveva anche radici del tutto teologiche, che in quel momento, in seguito alla situazione sociale cambiata, svilupparono una vitalità inaspettata. L’interpretazione stessa del Nuovo Testamento sembrò confermare esplicitamente una visione non sacrale di tutti i ministeri nella Chiesa. Non si vedeva nessuna continuità fra gli uffici sacrali dell’Antico Testamento ed i nuovi ministeri della Chiesa nascente; meno ancora si poteva riconoscere una connessione con le idee pagane del sacerdozio. Proprio la desacralizzazione dei ministeri sembrò rappresentare la novità del cristianesimo. I ministri delle comunità cristiane non vennero chiamati sacerdotes (hiereis), ma presbiteri, cioè anziani. Evidentemente, in questo modo di considerare il Nuovo Testamento operò essenzialmente l’origine protestante delle esegesi moderne; ciò, però, non cambiava nulla riguardo alla evidenza che sembrò meritare una tale interpretazione. Al contrario diventò bruciante la questione, se non avesse ragione Lutero contro Trento.


Stavano e stanno, dunque, fronte a fronte due concezioni del ministero sacerdotale: da una parte, una visione socio-funzionale che definiva la natura del sacerdozio con il concetto di “servizio”, cioè servizio alla comunità nel compimento di una funzione al servizio della figura sociale della Chiesa. Dall’altra parte, c’è una visione sacramentale-ontologica che, non negando certamente il carattere di servizio del sacerdozio, lo vede però ancorato nell’esistenza del ministro sapendo anche, nello stesso tempo, che questa sua esistenza è determinata da un dono, chiamato sacramento ed elargito a lui dal Signore per mezzo della Chiesa. Con la concezione funzionale si unisce anche una variazione terminologica. Sempre più si evita di usare l’espressione “sacerdote/sacerdozio”, connotata da un senso sacrale, e la si sostituisce con la parola neutro-funzionale “ministero” che, nella teologia cattolica, fere la natura del ministero sacerdotale corrisponde, almeno in una certa misura, anche una accentuazione diversa nella definizione dei compiti del sacerdote: all’orientamento fondamentale del sacerdozio alla eucarestia (sacerdos – sacrificium), divenuto classico nel cattolicesimo, si contrappone il primato della parola, considerato finora una concezione tipicamente protestante. Certamente, non si può in nessun modo sostenere che una concezione del sacerdozio, pensata a partire dal primato della parola, sia antisacramentale. Il decreto del Vaticano II sul ministero dei presbiteri dà prova anzi del contrario. E qui sorge la domanda, fino a che punto le alternative appena descritte debbano veramente escludersi, e fino a che punto invece non possano fecondarsi reciprocamente e, di conseguenza, risolversi dall’interno. È proprio questa la questione affrontata dal Concilio Vaticano II, cioè fino a che punto si possa allargare l’immagine del sacerdote, postridentina e divenuta ormai classica, e svilupparla dando ascolto alle esigenze avanzate da parte della Riforma, della esegesi critica e del senso moderno della vita senza, però, perdere l’essenziale; e viceversa, fino a che punto anche l’idea protestante del “ministero” si lasci aprire alla tradizione viva della Chiesa cattolica, sia dell’Oriente che dell’Occidente. In realtà riguardo al sacerdozio anche dopo il Concilio Tridentino non esiste nessuna differenza essenziale tra il cattolicesimo e la ortodossia.


1. La natura del ministero sacerdotale


Il Concilio Vaticano II non è entrato in questi problemi che allora appena stavano emergendo; dopo le grandi discussioni sulla collegialità episcopale, sull’ecumenismo, sulla libertà religiosa, sulle questioni del mondo contemporaneo, non sarebbero stati più disponibili né il tempo né le energie. Perciò i Sinodi degli anni 1971 e 1990 hanno ripreso l’argomento del sacerdozio e prolungato le dichiarazioni del Concilio; lo stesso argomento venne ancora più concretizzato, anche riguardo alla vita sacerdotale d’ogni giorno, dalle Lettere del Santo Padre ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo e dal Direttorio della Congregazione del Clero. Ma anche se il decreto conciliare non si riferisce esplicitamente alle controversie attuali, tuttavia fornisce l’orientamento fondamentale per tutto lo sviluppo ulteriore.


Quali risposte allora troviamo ai problemi appena accennati? Per dirla in breve: Non si può ridurre il Concilio ad una delle due alternative. Nella definizione introduttiva del sacerdozio si dice che i presbiteri con la consacrazione sono ordinati al servizio di Cristo maestro, sacerdote e re e partecipano al suo ministero, per mezzo del quale la Chiesa qui in terra è incessantemente edificata quale popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo (1). Nel nr. 2 si parla della potestà di offrire il sacrificio e perdonare i peccati. Ma questo compito peculiare del sacerdote è inserito, in forma molto esplicita, in una visione storico-dinamica della Chiesa, nella quale tutti “partecipano alla missione” di tutto il corpo, però “non tutti hanno la medesima funzione” (cf. Rom 12,4). Sintetizzando quanto detto finora possiamo constatare, che nel capitolo I del decreto è sottolineato con tutta chiarezza l’aspetto ontologico dell’esistenza sacerdotale e, nello stesso tempo, viene anche messa in evidenza la potestà di offrire il sacrificio. Proprio questo troviamo descritto, un’altra volta, all’inizio del nr. 3:


“I presbiteri, presi tra gli uomini e costituti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati, vivono in mezzo agli altri uomini come fratelli”. La novità nei confronti del Tridentino, si può vedere nel fatto che viene fortemente sottolineata l’unità vitale e il cammino comune di tutta la Chiesa, al cui interno è inserita la visione classica. Tanto più potremmo sentirci sorpresi leggendo all’inizio del capitolo ll, che parla dei compiti concreti dei presbiteri: “I presbiteri in quanto cooperatori dei vescovi hanno come primo dovere quello di annunciare a tutti il Vangelo di Dio” (4). Qui, con tutta chiarezza, sembra essere espresso il primato della parola ovvero del ministero dell’annuncio. Sorge dunque la questione: Le due affermazioni, ossia “costituiti per offrire doni e sacrifici” e “primo dovere (primum officium) quello di annunciare il Vangelo Evangelium evangelizandi)”, quale relazione hanno fra loro?


1.1 Il fondamento cristologico


Per trovare una risposta dobbiamo prima domandarci: Cosa vuol dire propriamente “evangelizzare”? Che cosa accade? Che cosa è questo Vangelo? Innanzitutto: Per fondare il primato dell’annuncio, il Concilio certamente avrebbe potuto richiamarsi ai Vangeli. Penso, ad esempio, all’episodio piccolo, ma molto significativo, raccontato all’inizio del Vangelo di Marco: ll Signore, da tutti cercato a causa della sua forza miracolosa, si ritira in un luogo deserto per pregare (Mc 1,35-39). Sollecitato da “Simone e quelli che erano con lui”, il Signore dice loro: Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là, “per questo infatti sono venuto!” (1,38). È l’annuncio del Regno di Dio che Gesù indica come scopo vero della sua venuta. E questo, dunque, deve essere anche la priorità determinante di tutti i suoi ministri: essi vengono per annunciare il Regno di Dio, e cioè: per rendere questo Dio vivente, potente e presente la priorità della nostra propria vita. Già da questa piccola pericope si possono raccogliere due prospettive complementari per una corretta comprensione di questa priorità: tale annuncio procede di pari passo con il ritirarsi in se stesso nel raccoglimento della preghiera personale. Anzi, sembra addirittura che tale ritiro ne sia il presupposto. Ed è inoltre unito con lo “scacciare i demoni” (1,39), ciò vuol dire: l’annuncio non è solo parlare, ma nello stesso tempo agire efficace. Non si compie in un mondo sano e bello, ma dentro un mondo dominato da demoni, e pertanto quell’annunciare significa un intervento liberatore all’interno di questo mondo.


Dobbiamo, però, fare un passo avanti e, oltre la piccola pericope significativa dal Vangelo di Marco, tenere presente tutto il Vangelo per poter comprendere bene la priorità di Gesù. Egli annuncia il Regno di Dio; e ciò fa innanzi tutto con parabole ed anche sotto la forma di segni, nei quali questo Regno, come potenza presente, si avvicina agli uomini. Parole e segni sono inseparabili. Ovunque i segni sono considerati solamente come prodigi, senza cogliere il loro contenuto di rivelazione, Gesù interrompe la sua attività. Nemmeno, però, permette che la sua predicazione sia considerata una faccenda solamente intellettuale o, per così dire, solo materia per discussioni. La sua parola esige una decisione, crea una realtà. In questo senso è Parola “incarnata”; la reciprocità di parola e segni manifesta una struttura “sacramentale” (1).


Dobbiamo fare ancora un passo avanti. Gesù non comunica contenuti che sono indipendenti dalla sua propria persona, come 0 solito fa un maestro oppure un narratore. Egli è più che un Rabbi. Col procedere della sua predicazione si fa sempre più evidente che, nelle parabole, Egli parla di se stesso, che il “Regno” e la sua persona vanno insieme, che il Regno viene nella sua persona. La decisione richiesta da Lui è una decisione sul rapporto con Lui, una decisione come la prese Pietro dicendo: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29). Infine, come contenuto della predicazione del Regno di Dio appare chiaramente lo stesso mistero pasquale di Gesù, ossia il suo destino di morte e risurrezione; ciò particolarmente, per esempio, nella parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,1-11). Parola e realtà allora si intrecciano in modo nuovo: la parabola suscita la rabbia degli avversari, i quali fanno quanto fu raccontato. Uccidono il figlio. Ciò significa: le parabole sarebbero vuote senza la persona vivente del figlio incarnato che “è venuto” (Mc 1,38), che “fu inviato” dal Padre (12,6). Esse sarebbero vuote senza la conferma della parola nella croce e nella risurrezione. Pertanto adesso capiamo che la predicazione di Gesù deve essere chiamata “sacramentale” in un senso ancora più profondo di quello che già abbiamo visto prima: la sua parola porta in sé la realtà della incarnazione ed il tema di croce e risurrezione. È, in questo senso più profondo, parola-azione. Così già indica per la Chiesa la reciprocità di predicazione ed eucarestia, ma anche di predicazione e testimonianza vissuta e sofferta.


A partire dalla visione pasquale, come ci si presenta nel Vangelo di Giovanni, dobbiamo ancora fare un passo avanti. Gesù è il Cristo, così ha detto Pietro. Gesù Cristo è il Logos, viene aggiunto da Giovanni. Egli stesso è il Verbo eterno del Padre, che è presso Dio e che è Dio (Gv 1,1). In Lui questo Verbo si fece carne e venn Verbo. “Pertanto, se parliamo del ministero della parola di Dio, insieme è intesa la relazione intertrinitaria”(2). Al tempo stesso è vero, “che questo ministero partecipa alla funzione della incarnazione”(3)


A ragione si è fatto notare che la differenza fondamentale fra la predicazione di Gesù e le lezioni dei Rabbini consiste proprio nel fatto che l’Io di Gesù, cioè Lui stesso, stia nel centro del suo messaggio(4). Nello stesso tempo, però, è da ricordare che Gesù stesso considerò caratteristico del suo parlare il fatto che non parlava “nel proprio nome” (Gv 5,43; cf. 7,16): ll Suo lo è tutto aperto verso il Tu del Padre, non si arresta in se stesso, ma ci porta dentro la dinamica della relazione trinitaria. Ciò significa, per il predicatore cristiano, che egli non parli di sé, ma si faccia voce di Cristo, per lasciare così posto allo stesso Logos e condurre, per mezzo della comunione con l’uomo Gesù, alla comunione con il Dio vivente.


Con questo ritorniamo al decreto del Vaticano II sul ministero presbiterale. Parlando delle diverse forme della predicazione, il documento rileva in tutte queste forme una costante: ll sacerdote non deve mai insegnare la sua propria sapienza, ma ciò che importa è sempre la parola di Dio che spinge alla verità e alla santità (4). Modellandosi sulla parola di San Paolo, il ministero della parola esige dal sacerdote, di spogliarsi profondamente di se stesso: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Qui mi viene in mente un piccolo episodio degli inizi dell’Opus Dei. Una giovane donna ebbe per la prima volta l’occasione di partecipare alle conferenze di Don Escrivá, fondatore dell’Opus. Era curiosissima di ascoltare l’oratore tanto famoso. Dopo aver però partecipato alla messa con lui – così ella raccontava più tardi -, non volle più mettersi ascolto di un oratore umano, ma soltanto ormai riconoscere la parola e la volontà di Dio. Il ministero della parola esige dal sacerdote la partecipazione alla kenosis di Cristo, il sorgere e il tramontare in Cristo. Il fatto che non parla di se stesso, ma porta il messaggio di un altro, certo non significa, in nessun modo, indifferenza personale, ma piuttosto il contrario: il perdersi in Cristo che riprende il cammino del suo mistero pasquale, e così porta a ritrovare veramente se stesso ed alla comunione con Colui, che è il Verbo di Dio in persona. la fin fine il ministero della parola, al di là di tutto ciò che è funzionale, penetra dentro 1′ essere e presuppone il sacerdozio quale sacramento.


1.2 Sviluppo nella tradizione (Agostino)


Poiché siamo qui arrivati al punto centrale della nostra questione, vorrei cercare di approfondirlo con due serie di immagini prese dalle opere di San Agostino; si tratta di immagini prese dalla meditazione della parola biblica, che al tempo stesso hanno influenzato notevolmente la tradizione dogmatica della Chiesa cattolica.


Innanzitutto vi è la designazione del sacerdote come “servus Dei” o “servus Christi”(5). Dietro questa espressione del servo di Cristo, presa dal linguaggio ecclesiastico di allora, sta l’inno Cristologico della lettera ai Filippesi (2,5) Cristo, il Figlio uguale a Dio, assunse la condizione di servo, divenne servo per noi. Dobbiamo qui tralasciare la profonda teologia della libertà e del servizio, esposta a questo proposito da Agostino. Importante per il nostro discorso è il fatto che il concetto di “servo” è un concetto relazionale. Uno è servo in relazione ad un altro. Se il sacerdote viene definito come servo di Gesù Cristo, questo significa che la sua esistenza è determinata essenzialmente come relazionale: l’essere ordinato al servizio del Signore, costituisce l’essenza del suo ministero che, perciò, giunge fin dentro la sua stessa esistenza. Egli è servitore di Cristo per essere, a partire da Lui, per Lui e con Lui, servitore degli uomini. Il suo essere in relazione a Cristo non si oppone al suo essere ordinato al servizio della comunità (della Chiesa), ma ne è il fondamento che solo le dà tutta la sua profondità. Essere in relazione con Cristo vuol dire essere inserito nella sua esistenza di servo ed essere, con Lui, a servizio del “corpo”, cioè della Chiesa. Il sacerdote, proprio perché appartiene a Cristo, appartiene in senso radicale agli uomini. Non sarebbe in grado di dedicarsi a loro con tanta profondità ed assolutezza, se non in questo modo. E questo anche significa che la concezione ontologica del sacerdozio, arrivando dentro l’essere dell’interessato, non si oppone alla serietà della funzionalità, del ministero sociale, ma crea piuttosto una radicalità del servire che non sarebbe pensabile nell’ambito puramente profano.


Il concetto di “servo” è collegato con l’immagine del “carattere indelebile”, diventata patrimonio di fede della Chiesa. Nel linguaggio della tarda antichità, con la parola “character” si designava il marchio di proprietà che veniva impresso, in modo da non poter più essere cancellato, su un oggetto o un animale oppure anche una persona. Così la proprietà è contrassegnata in maniera irrevocabile e (clamat ad Dominum) “rinvia al suo padrone”. Si potrebbe dire: “carattere” significa appartenenza, impressa nella esistenza stessa. In questo senso l’immagine del carattere esprime ancora una volta quell’essere relativo, che rinvia ad altro, di cui abbiamo appena parlato. Si tratta di una appartenenza di cui non si può disporre; l’iniziativa è venuta dal proprietario – da Cristo. Così si manifesta la natura del sacramento: io non posso dichiararmi, così semplicemente, come appartenente al Signore. Egli deve innanzitutto assumermi come Suo; solo allora io posso entrare in questo stato di assunzione, per accettarlo da parte mia e cercare di viverlo. In questo senso, dunque, la parola “character” descrive il carattere ontologico del servizio di Cristo, che troviamo nel sacerdozio e, nello stesso tempo, chiarisce che cosa si intende dire con la sua sacramentalità. Solo allora si può comprendere perché da San Agostino il carattere venga descritto funzionalmente (ed al tempo stesso ontologicamente) quale ius dandi, ossia quale condizione necessaria per l’amministrazione valida dei sacramenti(6). L’appartenenza al Signore, che si è fatto servo, è appartenenza in favore di coloro che sono i Suoi. Questo significa che ora il servitore può, sotto il segno sacro, donare ciò che mai potrebbe donare in virtù di se stesso: dona, infatti, lo Spirito Santo, assolve dai peccati, rende presente sia il sacrificio di Cristo che Cristo stesso nel suo sacro corpo e sangue – diritti tutti riservati a Dio, che nessun uomo può procurarsi da se stesso, né possono essere a lui delegati da alcuna comunità. Se, quindi, il carattere è l’espressione della comunione nel servizio, esso manifesta, da una parte, come sempre ultimamente il Signore stesso agisce e come, d’altra parte, egli agisce nella Chiesa visibile per mezzo di uomini. Così il carattere garantisce la “validità” del sacramento anche nel caso di un ministro indegno essendo però, al tempo stesso, sia un giudizio su questo ministro che stimolo a vivere il sacramento.


Ancora una parola su una seconda serie d’immagini, con la quale Sant’Agostino cercò di spiegare, a se stesso ed ai suoi fedeli, la natura del servizio presbiterale. Essa gli venne dalla meditazione sulla figura di Giovanni Battista, nel quale egli trova prefigurato il ministero del presbitero(7). Egli fa notare che, nel Nuovo Testamento, Giovanni viene denominato con una espressione presa da Isaia, cioè come “la voce”, mentre Cristo, nel Vangelo di Giovanni, appare come “il Verbo”. La relazione fra “voce” (vox) e “verbo” (verbum), parola, aiuta a chiarire la relazione fra Cristo e sacerdote. La parola (il verbo) esiste nel cuore prima di divenire sensibilmente percettibile per mezzo della voce. Poi entra, mediante la voce, anche nella percezione dell’altro facendosi presente anche nel suo cuore, senza però con questo che chi parla venga privato di quella parola. Il suono sensibile, ossia la voce, che porta la parola dall’uno all’altro (o agli altri), passa. La parola rimane. È compito del presbitero essere semplicemente la voce per il Verbo: “Egli deve crescere e io invece diminuire” – l’unico senso della voce è trasmettere il verbo; poi si ritira. Di qui emergono con chiarezza sia la grandezza del ministero sacerdotale che la sua umiltà: Come Giovanni Battista, anche il presbitero non è che precursore, servitore del Verbo, ministro della parola. Non è di lui, che ci si deve interessare, ma dell’Altro. Ma egli è vox (voce) con tutta la sua esistenza; è sua missione farsi voce per la parola ed è proprio in questo suo radicale riferimento ad un altro che partecipa alla grandezza della missione del Battista, alla missione del Logos stesso. E’nella stessa linea che Agostino designa il sacerdote come l’amico dello sposo (Gv 3,29), che non si appropria della sposa, ma partecipa come amico alla gioia delle nozze: ll Signore ha costituito il servo amico (Gv 15,15), ed egli ora appartiene alla casa e rimane nella casa – da servo è diventato uomo libero (Gal 4, 7; 4,21 – 5,1)(8).


2. Cristologia ed ecclesiologia:


Il carattere ecclesiale del sacerdozio


Finora abbiamo parlato del carattere cristologico del sacerdozio, che è sempre anche un carattere trinitario, perché il Figlio, per sua natura, è originato dal Padre e ritorna a Lui. Egli si comunica nello Spirito Santo che è l’amore e, quindi, il dono in persona. Ma poi il decreto conciliare sottolinea, in un passo ulteriore, il carattere ecclesiale del ministero che non può essere separato dalla sua base cristologico-trinitaria. L’incarnazione della Parola significa che Dio non vuole semplicemente venire, per mezzo dello Spirito, direttamente allo spirito dell’uomo, ma che lo cerca per mezzo del mondo materiale, volendo toccarlo anche proprio come essere sociale e storico. Dio vuole venire agli uomini attraverso degli uomini. Dio è andato agli uomini di tal maniera, che essi si trovino l’un l’altro per mezzo di Lui e a partire da Lui. Perciò l’incarnazione implica anche la comunione e la storicità della fede. Prendere la strada del corpo significa che la realtà del tempo e la socialità umana diventano fattori delle relazioni degli uomini con Dio, le quali a loro volta si basano sulla antecedente relazione di Dio con l’uomo. Pertanto cristologia ed ecclesiologia sono inseparabili: L’azione di Dio crea il “popolo di Dio”, ed il “popolo di Dio” diventa a partire da Cristo “corpo di Cristo”, secondo l’interpretazione profonda che Paolo, nella lettera ai Galati, dà della promessa ad Abramo. Questa promessa – così legge Paolo nell’Antico Testamento – vale “per il seme” di Abramo, cioè non per molti, ma per uno solo. L’azione di Dio, dunque, tende a che noi, i molti, non diventiamo semplicemente “una cosa sola”, ma “Uno” – nella comunione corporea con Gesù Cristo (Gal 3, 16 s. 28).


Proprio da questa profondità ecclesiale della cristologia, il Concilio ha derivato la dinamica storico mondana dell’evento di Cristo, al cui servizio stanno i presbiteri. Raggiungere la felicità, questo è il fine ultimo a cui noi tutti tendiamo. Ma la felicità non esiste che nell’essere insieme, e questo essere insieme si dà solo nella infinità dell’amore. La felicità non esiste che nell’aprirsi dell’Io entro il divino, ossia nella divinizzazione. In questo senso, il Concilio dice con Agostino, il fine della storia è che l’umanità divenga amore: Così l’umanità sarà adorazione, culto vivente, “civitas Dei, città di Dio”. E in tal modo si avvererà il desiderio pi , 42-55; Agostino, De civitate Dei X 6). Non si può ultimamente capire che cosa sia il culto, che cosa siano i sacramenti, se non in questa grande prospettiva.


Proprio questa visione, che orienta alle grandi questioni ultime, ci conduce poi anche al molto concreto: poiché le cose stanno così come esposto sopra, la fede cristiana non è mai né puramente spirituale-interiore né una relazione solamente soggettiva o privata-personale a Cristo ed alla sua Parola, ma è del tutto concreta ecclesiale. Per questo motivo il Concilio, forse in un modo un po’ forzato, sottolinea il vincolo dei presbiteri con il vescovo: Lo rappresentano e agiscono in nome e su missione di lui. La grande obbedienza cristologica, che capovolge la disubbidienza di Adamo, si concretizza nell’obbedienza ecclesiale, che, per il sacerdote, in pratica è l’obbedienza nei confronti del proprio vescovo. Certamente, il Concilio avrebbe potuto insistere di più sul fatto che prima deve esserci l’obbedienza comune di tutti alla Parola di Dio ed alla sua presentazione nella tradizione viva della Chiesa. Questo vincolo comune è anche la libertà comune; protegge dall’arbitrio e garantisce il carattere autenticamente cristologico dell’obbedienza ecclesiale. L’obbedienza ecclesiale non è positivistica; non è indirizzata semplicemente a una autorità formale. Ma piuttosto a colui che, obbediente egli stesso, personifica il Cristo obbediente. L’obbedienza è però chiaramente indipendente dalla virtù e dalla santità di colui che è incaricato di un ufficio, proprio perché si riferisce all’oggettività della fede donata dal Signore, che supera ogni soggettività. In questo senso, nell’obbedienza nei confronti del vescovo c’è sempre anche un andare oltre la Chiesa locale – è una obbedienza cattolica: Si obbedisce al vescovo, perché rappresenta qui sul luogo tutta quanta la Chiesa universale. Ed è una obbedienza che, oltrepassando il momento storico, è oriem, e proprio così si apre al futuro, nel quale Dio sarà tutto in tuffi e noi saremo un solo unico essere. Da questo punto di vista, l’esigenza di obbedienza è una esigenza seria per colui che rappresenta l’autorità. Questo, però, non significa che l’obbedienza sia condizionale: essa è molto concreta. Non obbedisco ad un Gesù quale io o altri abbiano inventato dalla Sacra Scrittura; in tal caso, obbedirei soltanto alle idee da me preferite e, nell’immagine di Gesù da me inventata, adorerei me stesso. No! Obbedire a Cristo significa obbedire al suo corpo, obbedire a Lui nel suo corpo. Fin dalla lettera ai Filippesi l’obbedienza di Gesù quale superamento della disubbidienza di Adamo sta nel centro della storia della salvezza. Nella vita sacerdotale, questa obbedienza deve incarnarsi come obbedienza nei confronti dell’autorità della Chiesa, cioè in concreto, nei confronti del vescovo. Solo così il rifiuto della idolatria di se stesso diviene realtà. Solo così anche dentro di noi sarà vinto Adamo e si dischiuderà la nuova umanità. In un tempo, in cui l’emancipazione è considerata il vero nucleo della redenzione e la libertà sembra essere il diritto di fare tutto e solo ciò che io voglio, il concetto di “obbedienza” è stato, per così dire, anatematizato. E’ stato eliminato non soltanto dal nostro vocabolario, ma anche dal nostro pensiero. E’, però, proprio questa concezione di libertà che provoca l’incapacità allo stare insieme, l’incapacità di amare. Rende l’uomo schiavo. Perciò l’obbedienza ben compresa deve essere riabilitata ed essere di nuovo valorizzata al centro della spiritualità cristiana e sacerdotale.


3. Applicazioni spirituali


Laddove la cristologia viene compresa in senso pneumatologico-trinitario e così, nello stesso tempo, ecclesiale, ne deriva quasi di per sé – come già abbiamo visto – il passaggio alla spiritualità, alla questione della fede vissuta. Il decreto conciliare – o aspetto anche con indicazioni molto concrete. Vorrei, qui, riprenderne solo un pensiero. Nel nr. 14, il decreto parla del difficile problema di come il presbitero, conteso da un gran numero di compiti spesso molto diversi, riesca a conservare l’unità interiore della sua vita – un problema che, con la crescente mancanza di sacerdoti, minaccia di diventare sempre più la vera crisi della esistenza sacerdotale. Un parroco d’oggi, a cui sono affidate tre o quattro parrocchie, è sempre in giro, da un luogo all’altro; una situazione ben conosciuta dai missionari diventa sempre più la regola anche nei paesi di antica cristianità. Il sacerdote deve cercare di garantire la celebrazione dei sacramenti nelle comunità, è tormentato da lavori amministrativi, si sente sfidato da una complessità di questioni d’ogni genere e a ciò si aggiungono le difficoltà personali di tante persone, per le quali egli a motivo di tutto questo spesso non trova nemmeno tempo.


Strappato qua e là tra tali attività, il prete si sente vuoto e sempre meno in condizione di trovare tempo per il raccoglimento, dal quale potrebbe attingere nuova forza ed ispirazione.


Esteriormente dilacerato ed interiormente svuotato, egli perde la gioia della sua vocazione, che alla fine non sente che come un peso quasi insopportabile. Non gli resta che la fuga. Per superare questa situazione il Concilio ha offerto tre indicazioni. Il fondamento è la comunione intima con Cristo, il cui cibo era il compimento della volontà del Padre (Gv 4, 34). È importante che l’unione ontologica con Cristo divenga viva nella coscienza, e così anche nell’azione: tutto ciò che faccio, lo faccio nella comunione con Lui. Proprio facendolo sono con Lui. Le mie attività, per quanto siano molteplici e spesso esteriormente addirittura contrastanti, costituiscono tuttavia una sola vocazione: Tutto è essere insieme con Cristo, un agire quale strumento nella comunione con Lui.


Di qui poi risulta la seconda indicazione: L’ascesi sacerdotale non deve essere collocata accanto all’azione pastorale, quasi che si trattasse d’un carico aggiunto, d’un compito ulteriore che ancora più sovraccarica la mia giornata. È proprio nell’azione che imparo a superare me stesso, a perdere e donare la mia vita; nella delusione e nel fallimento imparo a rinunciare, ad accettare il dolore, a distaccarmi da me stesso. Nella gioia della riuscita imparo la gratitudine. Nella celebrazione dei sacramenti ne sono io stesso interiormente beneficato; infatti, non compio un qualche lavoro esterno, ma parlo con Cristo e, attraverso Cristo, con il Dio trinitario, e cosi prego con gli altri e per gli altri. Questa ascesi del ministero, il ministero stesso quale vera ascesi della mia vita, è senza dubbio un elemento molto importante che esige, però, un continuo consapevole esercizio e una conformazione interiore dell’agire a partire dall’essere.


Perciò è indispensabile un terzo elemento. Anche se si cerca di vivere sia il servizio come ascesi che l’agire sacramentale come incontro personale con Cristo, si ha bisogno di momenti di respiro, affinché possa essere veramente realizzato questo orientamento interiore. I presbiteri – dice il decreto del Concilio – non lo raggiungeranno, se non penetrano sempre più a fondo con la loro vita nel mistero di Cristo. Molto impressionante è ciò che dice al riguardo San Carlo Borromeo a partire dalla sua esperienza: Il sacerdote, se vuole raggiungere una vera vita sacerdotale, deve usare i mezzi adatti, cioè digiunare, pregare, evitare sia la frequentazione delle cattive compagnie che familiarità dannose e pericolose. “Se già qualche scintilla del divino amore è stata accesa in te, non cacciarla via, non esporla al vento… Rimani raccolto con Dio… Eserciti la cura d’anime? Non trascurare per questo la cura di te stesso, e non darti agli altri fino che non rimanga nulla di te a te stesso. Devi avere certo presente il ricordo delle anime di cui sei pastore, ma non dimenticarti di te stesso… Se amministri i sacramenti, o fratello, medita ciò che fai. Se celebri la Messa, medita ciò che offri. Se reciti i salmi in coro, medita a chi e di che cosa parli. Se guidi le anime, medita da quale sangue siano state lavate…”(9)


L’espressione “meditare”, ripetuta quattro volte, già di per sé dimostra quanto essenziale per questo grande pastore d’anime sia l’approfondimento spirituale rientrato alla nostra azione. E del resto sappiamo quanto radicalmente si sia donato al suo popolo Carlo Borromeo – che esaurito dalla sua dedizione nel ministero morì a quarantasei anni. Proprio quest’uomo che veramente si è consumato per Cristo e, a partire da Lui, per gli uomini, ci insegna che una tale dedizione non è possibile se non con la disciplina e il sostegno di una vera spiritualità di fede. Qui abbiamo da imparare di nuovo qualcosa. Negli ultimi decenni, la vita interiore venne spesso sospettata di intimismo e fuga nel privato. Ma ministero senza spiritualità, senza vita interiore diviene vuoto attivismo. Non pochi sacerdoti, che avevano iniziato la loro missione con grande idealismo, falliscono in definitiva a causa di questa diffidenza per la spiritualità. Aver tempo per Dio, per stare personalmente e intimamente davanti a Lui, è una priorità pastorale di grado uguale, anzi sotto certi aspetti, addirittura maggiore rispetto a tutte le altre priorità. Non si tratta di un carico aggiunto, ma del respiro dell’anima, senza di cui necessariamente restiamo senza respiro – siamo privati del soffio spirituale, del soffio dello Spirito Santo dentro di noi. Anche altre modalità per un recupero spirituale sono importanti ed appropriate, però il modo fondamentale di riprendersi dall’attività e di imparare ad amarla di nuovo rimane la ricerca interiore del volto di Dio, che sempre ci restituisce la gioia di Dio. Uno degli umili e nella loro umiltà grandi parroci del nostro secolo Don Didimo Mantiero (1912-1992) di Bassano del Grappa, ha notato nel suo diario spirituale: “I convertiti erano e sono sempre un’acquisizione della preghiera e del sacrificio di fedeli sconosciuti. Cristo guadagnava le anime non con la forza della sua meravigliosa parola, bensì con la forza della sua costan(10) Le anime, cioè gli uomini vivi, non si possono attirare a Dio semplicemente con la persuasione o con la discussione. Vogliono essere conquistati, attraverso la preghiera, da Dio per Dio. Perciò la spiritualità cristiana è anche l’azione pastorale più importante. Nella nostra progettazione pastorale questo aspetto dovrebbe essere preso molto più in considerazione. Dobbiamo finalmente imparare di nuovo che abbiamo meno bisogno di discussioni e più di preghiera.


Uno sguardo in avanti:


L’unità in Cristo di Antico e Nuovo Testamento


Per concludere vorrei ancora una volta tornare sulla problematica accennata nell’introduzione: Che cosa significa, a partire dal Nuovo Testamento, il sacerdozio della Chiesa? Esiste innanzitutto? Ovvero è giusto il rimprovero, fatto dai Riformatori, che la Chiesa ha tradito la novità dell’evento cristiano e, annullando la svolta di Cristo, ha fatto di nuovo del presbitero un sacerdote? Non avrebbe dovuto restare strettamente fedele alla funzione dell’anziano, senza nessuna sacralizzazione né sacramentalizzazione? Per una risposta corretta a questa domanda non bastano ricerche solamente terminologiche sui concetti di “presbitero” e “hiereus” (sacerdos), originariamente diversi e più tardi uniti. Si deve andare più in profondità; è qui in discussione l’intera problematica della relazione fra Antico e Nuovo Testamento. Il Nuovo Testamento rappresenta sostanzialmente un taglio netto col passato oppure un adempimento, nel quale tutto, anche se trasformato, è ripreso e proprio nel rinnovarsi conservato? La grazia è contro la legge, oppure esiste una relazione interiore fra le due?


Storicamente è innanzitutto da rilevare che, nell’anno 70, il tempio di Gerusalemme fu distrutto e con ciò è scomparso l’intero settore del sacrificio e del sacerdozio che sotto un certo aspetto era stato il cuore della “legge”. Il giudaismo, da una parte, ha cercato di conservare quanto qui si era perduto applicando ora le prescrizioni di santità del tempio alla vita dell’ebreo in genere;(11) dall’altra, esso ha ancorato l’eredità perduta del tempio alla sua spiritualità, nella forma di una speranza, orante, nel ristabilimento del culto in Gerusalemme. La sinagoga, che non costituisce se non un luogo di riunione per la preghiera, per l’annuncio e l’ascolto della parola, è un frammento in attesa di ciò che è più grande. Ma una interpretazione strettamente riformatoria del ministero e del culto cristiano riduce il cristianesimo ad immagine della sinagoga, ossia a riunione, parola, preghiera. L’interpretazione storicistica della unicità del sacrificio di Cristo rinchiude sia sacrificio che culto nel passato ed esclude nel presente tanto il sacerdozio quanto il sacrificio. Nel frattempo anche nelle Chiese uscite dalla Riforma si vede sempre più che in tal modo è disconosciuta la grandezza e la profondità dell’evento del Nuovo Testamento. Così non sarebbe affatto adempiuto l’Antico Testamento. Nella risurrezione di Cristo invece il tempio è ricostruito per la potenza stessa di Dio (Gv 2, 19). Questo tempio vivente – Cristo – è egli stesso il nuovo sacrificio, che ha il suo continuato oggi nel corpo di Cristo, nella Chiesa. A partire da questo sacrificio e in riferimento ad esso abbiamo il ministero autenticamente sacerdotale del nuovo culto, nel quale tutte le “figure” trovano il loro adempimento.


Quindi è da respingere una concezione che, riguardo al culto e al sacerdozio, suppone un taglio netto con la storia della salvezza precristiana, negando dunque ogni rapporto tra il sacerdozio dell’Antico e quello del Nuovo Testamento. In tal caso il Nuovo Testamento non sarebbe in adempimento, ma in contrasto coll’Antica Alleanza; sarebbe distrutta l’unità interiore della storia della salvezza. Per mezzo del sacrificio di Cristo e della sua accettazione nella risurrezione l’intero patrimonio cultuale e sacerdotale dell’Antica Alleanza è consegnato alla Chiesa. È tutta questa pienezza del “sì” cristiano che deve essere messa in luce davanti ad un appiattimento della Chiesa sulla sinagoga; solo così si comprenderà l’ampiezza e la profondità del ministero della successione apostolica. In questo senso dobbiamo dire, senza vergogna né richiesta di scuse, ma con grande decisione e gioia: Si, il sacerdozio della Chiesa è continuazione e ripresa del sacerdozio dell’Antico Testamento, che tro. Una tale visione si dimostra importante anche per il rapporto del cristianesimo con le altre religioni del mondo. Per quanto il cristianesimo sia un nuovo inizio, la realtà più grande e totalmente altra che viene da Dio, nondimeno non è affatto riconducibile a pura negazione della ricerca umana. Il movimento di carattere avventizio che si esprime in queste religioni, per quanto distorto e deformato esso possa essere, non è privo di valore.


Tale concezione del sacerdozio non significa affatto una svalorizzazione del sacerdozio comune dei battezzati. E proprio questo, ancora una volta, Agostino ha fatto rilevare in modo bellissimo chiamando tutti i fedeli “servi di Dio”, mentre i sacerdoti li chiama “i servi dei servi” e, a partire dalla prospettiva della sua missione, designa i fedeli quali suoi padroni(12). Il sacerdozio del Nuovo Testamento si colloca nella sequela del Signore che lava i piedi ai discepoli: la Sua grandezza non può sussistere se non nella sua umiltà. Grandezza e abbassamento si intrecciano, da quando Cristo, il più grande, si è fatto più piccolo, da quando Egli, che è il primo, ha preso l’ultimo posto. Essere sacerdote vuol dire entrare in questa comunità del farsi piccolo, per partecipare così alla gloria comune della redenzione.


 


Note
1. Ho illustrato questa reciprocità in modo un po’ più ampio nel mio volumetto: Evangelium – Katechese – Katechismus (Munchen 1995) 35 – 43.
2. F. Genn, Trinität und Amt nach Augustinus (Einsiedeln 1986) 181.
3. ibid. 183.
4. Cfr. ad es. R. Aron, Die verborgenen Jahre Jesu (tradotto dal francese, Frankfurt 1962) 237s; J. Neusner, A Rabbi talks with Jesus (Doubleday 1993) 30.
5. Cfr. al riguardo Genn, loc. cit. 101-123; sull’uso generale della parola “Servus Dei” al tempo di Sant’Agostino: P. Brown Augustinus von Hippo (tradotto dall’inglese, Leipzig 1972) 114-118.
6. Genn, loc. cit. 34; 63s; sul concetto antico di carattere (corrispondente greco Stigma, Sphragis) cfr. H. Schlier, Der Brief an die Galater (Göttingen 1962) 284, ivi ulteriore bibliografia.
7. Sermo 293, 1 – 3 PL 38, 1327s.
8. Genn. a.a.O. 139ss.
9. Acta Ecclesiae Mediolanensis, Milano 1599, 1177s: Lettura della Liturgia delle Ore del 4 Novembre.
10. L. Grygiel, La “Dieci” di Don Didimo Mantiero (Ed. San Paolo 1995) 54.
11. Cfr Neusner, loc. cit. (Nota 4), ad es. p. 114s.
12. Genn. loc. cit. 117s.