DISCORSO DI SUA EMINENZA IL CARD. JOSEPH RATZINGER
IN OCCASIONE DEL CENTENARIO DELLA MORTE
DEL CARD. JOHN HENRY NEWMAN
Roma, 28 aprile 1990
Io non mi sento competente per parlare della figura o dell’opera di John Henry Newman, ma forse può essere interessante che mi soffermi un po’ sul mio personale approccio a Newman, nel quale si riflette anche qualcosa dell’attualità di questo grande teologo inglese nelle controversie spirituali del nostro tempo.
Quando nel gennaio 1946 potei iniziare il mio studio della teologia nel seminario della Diocesi di Frisinga, finalmente riaperto dopo gli sconvolgimenti della guerra, si provvide che al nostro gruppo fosse assegnato come prefetto uno studente più anziano, il quale già prima che iniziasse la guerra aveva cominciato a lavorare ad una dissertazione sulla teologia della coscienza di Newman. Durante tutti gli anni del suo impegno in guerra egli non aveva lasciato cadere dai suoi occhi questo tema, che ora riprendeva con nuovo entusiasmo e nuova energia. Fin dall’inizio ci legò un’amicizia personale, che si concentrava tutta attorno ai grandi problemi della filosofia e della teologia. Va da sé che Newman fosse sempre presente in questo scambio. Alfred Läpple, era lui infatti il prefetto summenzionato, pubblicò poi nel 1952 la sua dissertazione, col titolo Il singolo nella Chiesa. La dottrina di Newman sulla coscienza divenne allora per noi il fondamento di quel personalismo teologico, che ci attrasse tutti col suo fascino. La nostra immagine dell’uomo, così come la nostra concezione della Chiesa, furono segnate da questo punto di partenza. Avevamo sperimentato la pretesa di un partito totalitario, che si concepiva come la pienezza della storia e che negava la coscienza del singolo. Hermann Goering aveva detto del suo capo: “Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza è Adolf Hitler”. L’immensa rovina dell’uomo che ne derivò, ci stava davanti agli occhi.
Perciò era un fatto per noi liberante ed essenziale da sapere, che il “noi” della Chiesa non si fondava sull’eliminazione della coscienza, ma poteva svilupparsi solo a partire dalla coscienza. Tuttavia proprio perché Newman spiegava l’esistenza dell’uomo a partire dalla coscienza, ossia nella relazione tra Dio e l’anima, era anche chiaro che questo personalismo non rappresentava nessun cedimento all’individualismo, e che il legame alla coscienza non significava nessuna concessione all’arbitrarietà – anzi che si trattava proprio del contrario. Da Newman abbiamo imparato a comprendere il primato del Papa: la libertà di coscienza – così ci insegnava Newman con la Lettera al Duca di Norfolk – non si identifica affatto col diritto di “dispensarsi dalla coscienza, di ignorare il Legislatore e il Giudice, e di essere indipendenti da doveri invisibili”. In tal modo la coscienza, nel suo significato autentico, è il vero fondamento dell’autorità del Papa. Infatti la sua forza viene dalla Rivelazione, che completa la coscienza naturale illuminata in modo solo incompleto, e “la sua raison d’être è quella di essere il campione della legge morale e della coscienza”.
Questa dottrina sulla coscienza è diventata per me sempre più importante nello sviluppo successivo della Chiesa e del mondo. Mi accorgo sempre di più che essa si dischiude in modo completo solo in riferimento alla biografia del Cardinale, la quale suppone tutto il dramma spirituale del suo secolo.
Newman, in quanto uomo della coscienza, era divenuto un convertito; fu la sua coscienza che lo condusse dagli antichi legami e dalle antiche certezze dentro il mondo per lui difficile e inconsueto del cattolicesimo. Tuttavia, proprio questa via della coscienza è tutt’altro che una via della soggettività che afferma se stessa: è invece una via dell’obbedienza alla verità oggettiva. Il secondo passo del cammino di conversione che dura tutta la vita di Newman fu infatti il superamento della posizione del soggettivismo evangelico, in favore d’una concezione del Cristianesimo fondata sull’oggettività del dogma. A questo proposito trovo sempre grandemente significativa, ma particolarmente oggi, una formulazione tratta da una delle sue prediche dell’epoca anglicana. Il vero Cristianesimo si dimostra nell’obbedienza, e non in uno stato di coscienza. “Così tutto il compito e il lavoro di un cristiano si organizza attorno a questi due elementi: la fede e l’obbedienza; “egli guarda a Gesù” (Eb 2, 9)… e agisce secondo la sua volontà. Mi sembra che oggi corriamo il pericolo di non dare il peso che dovremmo a nessuno dei due. Consideriamo qualsiasi vera e accurata riflessione sul contenuto della fede come sterile ortodossia, come astruseria tecnica. Di conseguenza facciamo consistere il criterio della nostra pietà nel possesso di una cosiddetta disposizione d’animo spirituale”.
A questo riguardo sono diventate per me importanti alcune frasi prese dal libro Gli Ariani del IV secolo, che invece a prima vista mi erano sembrate piuttosto sorprendenti: il principio posto dalla Scrittura a fondamento della pace è “riconoscere che la verità in quanto tale deve guidare tanto la condotta politica che quella privata… e che lo zelo, nella scala delle grazie cristiane, aveva la priorità sulla benevolenza”. È per me sempre di nuovo affascinante accorgermi e riflettere come proprio così e solo così, attraverso il legame alla verità, a Dio, la coscienza riceve valore, dignità e forza. In questo contesto vorrei aggiungere solo un’altra espressione tratta dall’Apologia pro vita sua, che dimostra viceversa il realismo di questa concezione della persona e della Chiesa: “I movimenti vivi non nascono da comitati”.
Vorrei ancora una volta ritornare brevemente al filo autobiografico. Quando nel 1947 proseguii a Monaco i miei studi, trovai nel professore di teologia fondamentale, Gottlieb Söhngen, il mio vero maestro in teologia, un colto e appassionato seguace di Newman. Egli ci dischiuse la Grammatica dell’Assenso e con essa la modalità specifica e la forma di certezza propria della conoscenza religiosa. Ancora più profondamente agì su me il contributo che Heinrich Fries pubblicò in occasione del Giubileo di Calcedonia: qui trovai l’accesso alla dottrina di Newman sullo sviluppo del dogma, che ritengo essere, accanto alla dottrina sulla coscienza, il suo contributo decisivo per il rinnovamento della teologia. Con ciò egli mise nelle nostre mani la chiave per inserire nella teologia un pensiero storico, o piuttosto: egli ci insegnò a pensare storicamente la teologia, e proprio in tal modo a riconoscere l’identità della fede in tutti i mutamenti. Sono costretto ad astenermi dall’approfondire, in questo contesto, tale idea. Mi sembra che il contributo di Newman non sia stato ancora del tutto utilizzato nelle teologie moderne. Esso contiene in sé ancora possibilità fruttuose, che attendono di essere sviluppate. In questa sede vorrei solo rimandare ancora una volta allo sfondo biografico di questa concezione. È noto come la concezione di Newman sull’idea dello sviluppo ha segnato il suo cammino verso il cattolicesimo. Tuttavia non si tratta qui solo d’uno svolgimento coerente di idee. Nel concetto di sviluppo è in gioco la stessa vita personale di Newman. Ciò mi sembra che diventi evidente nella sua nota affermazione, contenuta nel famoso saggio su Lo sviluppo della dottrina cristiana: “qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni”. Newman è stato lungo tutta la sua vita uno che si è convertito, uno che si è trasformato, e in tal modo è sempre rimasto lo stesso, ed è sempre di più diventato se stesso.
Mi viene in mente qui la figura di sant’Agostino, così affine alla figura di Newman. Quando si convertì nel giardino presso Cassiciaco, Agostino aveva compreso la conversione ancora secondo lo schema del venerato maestro Plotino e dei filosofi neoplatonici. Pensava che la vita passata di peccato era adesso definitivamente superata; il convertito sarebbe stato d’ora in poi una persona completamente nuova e diversa, e il suo cammino successivo sarebbe consistito in una continua salita verso le altezze sempre più pure della vicinanza di Dio, qualcosa come ciò che ha descritto Gregorio di Nissa in De vita Moysis: “Proprio come i corpi, non appena hanno ricevuto il primo impulso verso il basso, anche senza ulteriori spinte, da se stessi sprofondano…, così ma in senso contrario, l’anima che si è liberata dalle passioni terrene, si eleva costantemente al di sopra di sé con un veloce movimento ascensionale… in un volo che punta sempre verso l’alto”. Ma la reale esperienza di Agostino era un’altra: egli dovette imparare che essere cristiani significa piuttosto percorrere un cammino sempre più faticoso con tutti i suoi alti e bassi. L’immagine dell’ascensione venne sostituita con quella di un iter, un cammino, dalle cui faticose asperità ci consolano e sostengono i momenti di luce, che noi di tanto in tanto possiamo ricevere. La conversione è un cammino, una strada che dura tutta una vita. Per questo la fede è sempre sviluppo, e proprio così maturazione dell’anima verso la Verità, che “ci è più intima di quanta noi lo siamo a noi stessi”.
Newman ha esposto nell’idea dello sviluppo la propria esperienza personale d’una conversione mai conclusa, e così ci ha offerto l’interpretazione non solo del cammino della dottrina cristiana, ma anche della vita cristiana. Il segno caratteristico del grande dottore nella Chiesa mi sembra essere quello che egli non insegna solo con il suo pensiero e i suoi discorsi, ma anche con la sua vita, poiché in lui pensiero e vita si compenetrano e si determinano reciprocamente. Se ciò è vero, allora davvero Newman appartiene ai grandi dottori della Chiesa, perché egli nello stesso tempo tocca il nostro cuore e illumina il nostro pensiero.