Il pensiero del Papa Benedetto XVI, secondo il cardinal Ratzinger (Parte II)

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MURCIA, venerdì, 29 aprile 2005 (ZENIT.org).- In un incontro tenutosi nel 2002, presso l’Università Cattolica San Antonio di Murcia, il cardinal Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, aveva affrontato alcuni temi come la possibilità di un Concilio Vaticano III, la questione ecclesiologica sollevata dalla Dichiarazione “Dominus Iesus”, e lo stato attuale del dialogo fra scienza, morale e fede. E’ stato detto che è necessario convocare un nuovo Concilio Vaticano III, affinché la Chiesa possa adattarsi ai nuovi tempi. Lei che ne pensa?

Cardinal Ratzinger: Innanzitutto, direi che si tratta di un problema pratico. Non abbiamo attuato in modo sufficiente l’eredità lasciataci dal Vaticano II; stiamo lavorando per assimilare e interpretare bene questa eredità, poiché i processi vitali richiedono del tempo.

Una misura tecnica può essere applicata rapidamente, ma le cose della vita hanno dei percorsi molto più lunghi. È necessario del tempo perché un bosco possa crescere, è necessario del tempo perché un uomo possa crescere… In questo senso, i percorsi spirituali come quello dell’assimilazione del Concilio sono cammini della vita che hanno bisogno di una certa durata e che non possono essere percorsi da un giorno all’altro. Per questo credo che non sia ancora arrivato il momento di un nuovo Concilio.

Questo tuttavia non è il problema primario, ma rappresenta comunque un problema pratico. Inoltre, nel Vaticano II avevamo due mila Vescovi ed era già immensamente difficile svolgere una riunione di dialogo; adesso avremmo quattro mila Vescovi e credo che occorrerebbe inventare qualche tecnica nuova che consenta di svolgere il dialogo.

Vorrei ricordare ciò che avvenne nel IV secolo, secolo di grandi Concili. Quando Gregorio Nazianzeno fu invitato a partecipare ad un nuovo Concilio, a soli dieci anni dalla conclusione di quello precedente, egli rispose: “No! Io non vado. Adesso dobbiamo continuare a lavorare su quell’altro. Abbiamo già tanti problemi. Perché volete convocarne subito un’altro?”. Credo che questa voce in qualche misura emotiva ci mostri che è necessario del tempo per assimilare un Concilio.

Tra un grande Concilio e l’altro è necessario sviluppare soprattutto altre forme di contatto tra gli episcopati: i Sinodi di Roma, ad esempio. Certamente è necessario migliorare le procedure dei Sinodi, poiché vi sono troppi monologhi. Dobbiamo trovare veramente un processo sinodale, di un cammino in comune. Poi vi sono i Sinodi continentali, regionali, ecc; i lavori delle Conferenze Episcopali; gli incontri delle Conferenze Episcopali con la Santa Sede.

Nell’arco di cinque anni, [Noi della Curia romana, ndr] vediamo tutti i Vescovi del mondo. Abbiamo migliorato molte cose in queste visite “ad limina”, che prima erano molto formali e che adesso sono autentici incontri di dialogo. Pertanto, dobbiamo migliorare questi strumenti per intrattenere un dialogo permanente tra tutte le parti della Chiesa e tra tutte le parti e la Santa Sede, per giungere ad una migliora applicazione del Concilio Vaticano II. Poi vedremo…

Come è possibile mantenere fedeltà alla Chiesa e favorire allo stesso tempo la comunione, nell’apertura allo Spirito che ci porta alla verità tutta intera? In altre parole, come è possibile non cadere nella condizione estrema della rigidità e della rottura?

Cardinal Ratzinger: Credo che si tratti di una questione soprattutto di maturità di fede personale. Apparentemente, fedeltà e apertura sembrano escludersi a vicenda. Ma io credo che l’autentica fedeltà al Signore Gesù e alla sua Chiesa che è il suo Corpo sia una fedeltà dinamica. La verità è per tutti e tutti sono creati per arrivare al Signore.

Le sua braccia aperte sulla croce simboleggiano per i Padri della Chiesa al contempo il massimo grado di fedeltà del Signore inchiodato sulla croce e l’abbraccio al mondo, per attrarre il mondo verso di sé e lasciare spazio a tutti. Pertanto, una fedeltà autentica al Signore partecipa del dinamismo della persona di Cristo, ed è in grado di aprirsi alle diverse sfide della realtà, dell’altro, del mondo, ecc., e di trovare al contempo proprio lì la sua identità profonda, che non esclude nulla di autentico, ma che esclude solo la menzogna.

Nella misura in cui noi entriamo in comunione con Cristo, nel suo amore che ci accoglie tutti e ci purifica, nella misura in cui noi partecipiamo alla comunione con Cristo, potremmo essere fedeli e aperti.

A che punto è il dialogo ecumenico sul concetto di Chiesa? Dopo la pubblicazione dell’istruzione “Dominus Iesus”, il 6 agosto 2000, da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, sono state formulate diverse critiche tra i rappresentanti delle Chiese evangeliche, che non hanno accettato o non hanno capito bene alcune sue dichiarazione in cui lei ha affermato che si dovrebbe parlare di comunità cristiane piuttosto che di Chiese.

Cardinal Ratzinger: L’argomento richiederebbe una lunga dissertazione. In primo luogo, ci è stato detto che se nella “Dominus Iesus” ci si fosse limitati a parlare del carattere unico di Cristo, l’intera cristianità sarebbe stata felice di questo documento, tutti si sarebbero uniti in un applauso alla Congregazione. “Perché avete aggiunto il problema ecclesiologico che ha suscitato critiche?”, ci è stato chiesto.

Eppure, era necessario parlare anche della Chiesa, perché Gesù ha creato questo Corpo e Lui è presente, attraverso i secoli, per mezzo del suo Corpo che è la Chiesa. La Chiesa non è uno spirito fluttuante. Sono convinto che [nella “Dominus Iesus”, ndr] abbiamo interpretato in maniera totalmente fedele la “Lumen Gentium” del Vaticano II, mentre negli ultimi trent’anni ne è stato progressivamente ammorbidito il testo. Tanto è vero che i nostri critici ci hanno rimproverato di essere rimasti ai testi del Concilio, senza però aver capito il Concilio. Almeno riconoscono che siamo stati fedeli ai testi.

La Chiesa di Cristo non è un’utopia ecumenica; non è qualcosa che facciamo noi; non sarebbe la Chiesa di Cristo. Per questo siamo convinti che la Chiesa è un Corpo, non è solo un’idea, ma questo non esclude diverse forme di una certa presenza della Chiesa persino fuori dalla Chiesa cattolica, forme che sono specificate dal Concilio. Mi sembra evidente che esistono, pertanto, diverse matrici ed è comprensibile che questo susciti dei dibattiti all’interno della Chiesa.

Lei pensa che la Chiesa, specialmente nel mondo occidentale, sia preparata ad affrontare la scristianizzazione e il grande vuoto di fede di oggi? Oppure esiste ancora tra gli uomini di Chiesa l’immagine di un certo cristianesimo che non coincide con quella di una Chiesa missionaria?

Cardinal Ratzinger: Credo che in questo senso dobbiamo imparare ancora molto. Ci occupiamo troppo di noi stessi, delle questioni strutturali, del celibato, della ordinazione delle donne, dei Consigli pastorali, dei diritti di tali Consigli, dei Sinodi… Lavoriamo sempre sui nostri problemi interni e non ci rendiamo conto che il mondo ha bisogno di risposte; che non sa come vivere.

Questa incapacità di vivere del mondo si rende evidente nei fenomeni della droga, del terrorismo, ecc. Pertanto, il mondo ha sete di risposte, mentre noi rimaniamo fermi sui nostri problemi. Sono convinto che se usciamo per incontrarci con gli altri e presentiamo agli altri in modo adeguato il Vangelo, i problemi interni risulterebbero subito relativizzati o persino risolti. Per me questo è un punto fondamentale: dobbiamo rendere il Vangelo accessibile al mondo secolarizzato di oggi.

Quale può essere secondo lei il punto di partenza per coniugare la crescita del potere tecnico e scientifico dell’umanità con la fede e la morale?

Cardinal Ratzinger: È un qualcosa che bisogna riscoprire di nuovo, perché i paradigmi scientifici cambiano e la situazione del dialogo tra scienza e fede si trova di fronte a problematiche nuove. Un importante strumento, ad esempio, è la Pontificia Accademia delle Scienze, della quale sono adesso membro – di recente ho partecipato per la prima volta ad una sua riunione.

Fino a poco tempo fa era solamente un’assemblea di scienziati (fisici, biologi, ecc.), ma adesso sono entrati a farne parte anche filosofi e teologi. Abbiamo constatato la difficoltà del dialogo tra le scienze e la filosofia e la teologia, perché sono modi totalmente diversi di affrontare la realtà; con metodi diversi, ecc.

Uno di questi accademici, specializzato nella ricerca sul cervello umano, ha detto che esistono due mondi inconciliabili: da una parte la scienza esatta, secondo cui, nel suo campo, non vi è libertà, non esiste una presenza dello spirito, ma dall’altra parte, lo scienziato si rende conto che è un uomo e sa di essere libero. Pertanto, secondo lui, sono due mondi diversi e non abbiamo la possibilità di conciliare queste due percezioni del mondo. Egli stesso ammetteva di credere nei due mondi: nella scienza che nega la libertà e nella sua esperienza di uomo libero. Ma in questo modo non possiamo vivere: sarebbe una schizofrenia permanente.

In questa situazione attuale di forte specializzazione metodologica di entrambe le parti, dobbiamo trovare la via attraverso la quale scoprire la razionalità dell’altro ed instaurare un autentico dialogo. Per il momento non esiste una formula risolutiva. Per questo è sommamente importante trovare esponenti delle due parti del pensiero umano – le scienze, la filosofia e la teologia – in grado di scoprire che entrambe sono espressione della ragione autentica, e con il compito di comprendere che la realtà è una e che l’uomo è uno.

Per questo è molto importante che nelle università, le facoltà non stiano una parallela all’altra, ma stiano in un contatto permanente, nel quale si impara a pensare insieme agli altri e a trovare l’unità della realtà.