Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato

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7 marzo 2000   
Lo studio del tema “La Chiesa e le colpe del passato” è stato proposto alla Commissione Teologica Internazionale da parte del suo Presidente, il Card. J. Ratzinger, in vista della celebrazione del Giubileo dell’anno 2000. Per preparare questo studio venne formata una Sottocommissione composta dal Rev. Christopher Begg.

NOTA PRELIMINARE


Lo studio del tema “La Chiesa e le colpe del passato” è stato proposto alla Commissione Teologica Internazionale da parte del suo Presidente, il Card. J. Ratzinger, in vista della celebrazione del Giubileo dell’anno 2000. Per preparare questo studio venne formata una Sottocommissione composta dal Rev. Christopher Begg, da Mons. Bruno Forte (presidente), dal Rev. Sebastian Karotemprel, S.D.B., da Mons. Roland Minnerath, dal Rev. Thomas Norris, dal Rev. P. Rafael Salazar Cárdenas, M.Sp.S., e da Mons. Anton Štrukelj. Le discussioni generali su questo tema si sono svolte in numerosi incontri della Sottocommissione e durante le sessioni plenarie della stessa Commissione Teologica Internazionale, tenutesi a Roma nel 1998 e nel 1999. Il presente testo è stato approvato in forma specifica, dalla Commissione Teologica Internazionale, con voto scritto, ed è stato poi sottoposto al suo presidente, il Card. J. Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il quale ha dato la sua approvazione per la pubblicazione.


INTRODUZIONE


La Bolla di indizione dell’Anno Santo del 2000 Incarnationis mysterium (29 novembre 1998) indica fra i segni ” che possono opportunamente servire a vivere con maggiore intensità l’insigne grazia del giubileo ” la purificazione della memoria. Questa consiste nel processo volto a liberare la coscienza personale e collettiva da tutte le forme di risentimento o di violenza, che l’eredità di colpe del passato può avervi lasciato, mediante una rinnovata valutazione storica e teologica degli eventi implicati, che conduca – se risulti giusto – ad un corrispondente riconoscimento di colpa e contribuisca ad un reale cammino di riconciliazione. Un simile processo può incidere in maniera significativa sul presente, proprio perché le colpe passate fanno spesso sentire ancora il peso delle loro conseguenze e permangono come altrettante tentazioni anche nell’oggi.


In quanto tale, la purificazione della memoria richiede ” un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di cristiani “, e si fonda sulla convinzione che ” per quel legame che, nel corpo mistico, ci unisce gli uni agli altri, tutti noi, pur non avendone responsabilità personale e senza sostituirci al giudizio di Dio, che solo conosce i cuori, portiamo il peso degli errori e delle colpe di chi ci ha preceduto “. Giovanni Paolo II aggiunge: ” Come successore di Pietro, chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli “.(1) Nel ribadire, poi, che ” i cristiani sono invitati a farsi carico, davanti a Dio e agli uomini offesi dai loro comportamenti, delle mancanze da loro commesse “, il Papa conclude: ” Lo facciano senza nulla chiedere in cambio, forti solo dell”amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori’ (Rm 5,5) “.(2)


Le richieste di perdono fatte dal Vescovo di Roma in questo spirito di autenticità e di gratuità hanno suscitato reazioni diverse: la fiducia incondizionata che il Papa ha dimostrato di avere nella forza della Verità ha incontrato un’accoglienza generalmente favorevole, all’interno e all’esterno della comunità ecclesiale. Non pochi hanno sottolineato l’accresciuta credibilità dei pronunciamenti ecclesiali, conseguente a questo comportamento. Non sono però mancate alcune riserve, espressione soprattutto del disagio legato a particolari contesti storici e culturali, nei quali la semplice ammissione di colpe commesse dai figli della Chiesa può assumere il significato di un cedimento di fronte alle accuse di chi è pregiudizialmente ostile ad essa. Fra consenso e disagio, si avverte il bisogno di una riflessione, che chiarisca le ragioni, le condizioni e l’esatta configurazione delle richieste di perdono relative alle colpe del passato.


Di questo bisogno ha inteso farsi carico la Commissione Teologica Internazionale, nella quale sono rappresentate culture e sensibilità diverse all’interno dell’unica fede cattolica, elaborando il presente testo. In esso viene offerta una riflessione teologica sulle condizioni di possibilità degli atti di ‘purificazione della memoria’, legati al riconoscimento di colpe del passato. Le domande cui si cerca di rispondere sono: perché produrre tali atti? quali ne sono i soggetti adeguati? quale ne è l’oggetto e come esso va determinato, coniugando correttamente giudizio storico e giudizio teologico? quali sono i destinatari? quali le implicanze morali? e quali gli effetti possibili sulla vita della Chiesa e sulla società? Scopo del testo non è, dunque, quello di prendere in esame casi storici particolari, ma di chiarire i presupposti che rendano fondato il pentimento relativo a colpe passate.


L’aver precisato sin dall’inizio il genere della riflessione qui presentata chiarisce anche a che cosa ci si riferisca quando in essa si parla della Chiesa: non si tratta né della sola istituzione storica, né della sola comunione spirituale dei cuori illuminati dalla fede. Per Chiesa si intenderà sempre la comunità dei battezzati, inseparabilmente visibile e operante nella storia sotto la guida dei Pastori e unificata nella profondità del suo mistero dall’azione dello Spirito vivificante: quella Chiesa, che – secondo le parole del Concilio Vaticano II – ” per una non debole analogia è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta è a servizio del Verbo divino come vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa è a servizio dello Spirito di Cristo che lo vivifica, per la crescita del corpo (cf. Ef 4,16) “.(3) Questa Chiesa – che abbraccia i suoi figli del passato, come quelli del presente in una reale e profonda comunione – è l’unica Madre nella Grazia che assume su di sé il peso delle colpe anche passate per purificare la memoria e vivere il rinnovamento del cuore e della vita secondo la volontà del Signore. Essa può farlo in quanto Cristo Gesù – di cui è il Corpo misticamente prolungato nella storia – ha assunto su di sé una volta per sempre i peccati del mondo.


La struttura del testo rispecchia le domande poste: esso muove da una breve rivisitazione storica del tema (cap. 1), per poter poi indagare il fondamento biblico (cap. 2) e approfondire le condizioni teologiche delle richieste di perdono (cap. 3). La precisa coniugazione di giudizio storico e di giudizio teologico è elemento decisivo per giungere a pronunciamenti corretti ed efficaci, che tengano conto adeguatamente dei tempi, dei luoghi e dei contesti in cui si situano gli atti considerati (cap. 4). Alle implicanze morali (cap. 5), pastorali e missionarie (cap. 6) di questi atti di pentimento relativi alle colpe del passato sono dedicate le considerazioni finali, che hanno naturalmente un valore specifico per la Chiesa cattolica. Tuttavia, nella consapevolezza che l’esigenza di riconoscere le proprie colpe ha ragione di essere per tutti i popoli e per tutte le religioni, ci si auspica che le riflessioni proposte possano aiutare tutti ad avanzare in un cammino di verità, di dialogo fraterno e di riconciliazione.


A conclusione di questa introduzione non sarà inutile richiamare la finalità ultima di ogni possibile atto di ‘purificazione della memoria’, compiuto dai credenti, perché essa ha ispirato anche il lavoro della Commissione: si tratta della glorificazione di Dio, perché vivere l’obbedienza alla Verità divina ed alle sue esigenze conduce a confessare insieme con le nostre colpe la misericordia e la giustizia eterne del Signore. La ‘confessio peccati’ – sostenuta e illuminata dalla fede nella Verità che libera e salva (‘confessio fidei’) – diventa ‘confessio laudis’ rivolta a Dio, al cui cospetto soltanto è possibile riconoscere le colpe del passato, come quelle del presente, per lasciarci riconciliare da Lui e con Lui in Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo, e divenire capaci di offrire il perdono a quanti ci avessero offeso. Questa offerta di perdono appare particolarmente significativa se si pensa alle tante persecuzioni subite dai cristiani nel corso della storia. In questa prospettiva gli atti compiuti e richiesti dal Papa in rapporto alle colpe del passato presentano un valore esemplare e profetico, tanto per le religioni, quanto per i governi e le nazioni, oltre che per la Chiesa cattolica, che potrà così essere aiutata a vivere in maniera più efficace il grande Giubileo dell’incarnazione come evento di grazia e di riconciliazione per tutti.


1. IL PROBLEMA: IERI E OGGI


1.1. Prima del Vaticano II


Il Giubileo è stato sempre vissuto nella Chiesa come un tempo di gioia per la salvezza donata in Cristo e come un’occasione privilegiata di penitenza e di riconciliazione per i peccati presenti nella vita del popolo di Dio. Sin dalla sua prima celebrazione sotto Bonifacio VIII nell’anno 1300 il pellegrinaggio penitenziale alla tomba degli Apostoli Pietro e Paolo è stato associato alla concessione di un’indulgenza eccezionale per procurare, col perdono sacramentale, la remissione totale o parziale delle pene temporali dovute ai peccati.(4) In questo contesto, tanto il perdono sacramentale che la remissione delle pene rivestono un carattere personale. Nel corso dell'” anno del perdono e della grazia “,(5) la Chiesa dispensa in modo particolare il tesoro di grazie che il Cristo ha costituito a suo favore.(6) In nessuno dei giubilei celebrati finora c’è stata, tuttavia, una presa di coscienza di eventuali colpe del passato della Chiesa, né del bisogno di domandare perdono a Dio per comportamenti del passato prossimo o remoto.


È anzi nell’intera storia della Chiesa che non si incontrano precedenti richieste di perdono relative a colpe del passato, che siano state formulate dal Magistero. I Concili e le decretali papali sanzionavano certo gli abusi di cui si fossero resi colpevoli chierici o laici, e non pochi pastori si sforzavano sinceramente di correggerli. Rarissime sono state però le occasioni in cui le autorità ecclesiali – papa, vescovi o concili – hanno riconosciuto apertamente le colpe o gli abusi di cui si erano rese esse stesse colpevoli. Un esempio celebre è fornito dal papa riformatore Adriano VI che riconobbe apertamente, in un messaggio alla Dieta di Norimberga del 25 novembre 1522, ” gli abomini, gli abusi […] e le prevaricazioni ” di cui si era resa colpevole ” la corte romana ” del suo tempo, ” malattia […] profondamente radicata e sviluppata “, estesa ” dal capo ai membri “.(7) Adriano VI deplorava colpe contemporanee, precisamente quelle del suo predecessore immediato Leone X e della sua curia, senza tuttavia associarvi una domanda di perdono.


Bisognerà attendere Paolo VI per vedere un Papa esprimere una domanda di perdono rivolta tanto a Dio, che a un gruppo di contemporanei. Nel discorso di apertura della seconda sessione del Concilio il Papa ” domanda perdono a Dio […] e ai fratelli separati ” d’Oriente che si sentissero offesi “da noi ” (Chiesa cattolica), e si dichiara pronto, da parte sua, a perdonare le offese ricevute. Nell’ottica di Paolo VI la domanda e l’offerta di perdono riguardavano unicamente il peccato della divisione tra i cristiani e supponevano la reciprocità.


1.2. L’insegnamento del Concilio


Il Vaticano II si pone nella stessa prospettiva di Paolo VI. Per le colpe commesse contro l’unità – affermano i Padri conciliari – ” chiediamo perdono a Dio e ai fratelli separati, come pure noi rimettiamo ai nostri debitori “.(8) Oltre le colpe contro l’unità, il Concilio segnala altri episodi negativi del passato, in cui i cristiani hanno avuto una responsabilità. Così, ” deplora certi atteggiamenti mentali, che talvolta non mancano nemmeno tra i cristiani “, che hanno potuto far pensare a un’opposizione fra la scienza e la fede.(9) Parimenti, considera che ” nella genesi dell’ateismo ” i cristiani possono aver avuto ” una certa responsabilità “, nella misura in cui con la loro negligenza hanno ” velato piuttosto che rivelare il genuino volto di Dio e della religione “.(10) Inoltre, il Concilio ” deplora ” le persecuzioni e manifestazioni d’antisemitismo compiute ” in ogni tempo e da chiunque “.(11) Il Concilio tuttavia non associa una richiesta di perdono ai fatti citati.


Dal punto di vista teologico il Vaticano II distingue fra la fedeltà indefettibile della Chiesa e le debolezze dei suoi membri, chierici o laici, ieri come oggi,(12) e dunque fra di essa, Sposa di Cristo ” senza macchia né ruga […] santa e immacolata ” (cf. Ef 5,27), e i suoi figli, peccatori perdonati, chiamati alla metanoia permanente, al rinnovamento nello Spirito Santo. ” La Chiesa, che comprende nel suo seno i peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento “.(13)


Il Concilio ha anche elaborato alcuni criteri di discernimento riguardo alla colpevolezza o alla responsabilità dei vivi per le colpe passate. In effetti, ha richiamato, in due contesti differenti, la non imputabilità ai contemporanei di colpe commesse nel passato da membri della loro comunità religiosa:


– ” Quanto è stato commesso durante la passione (di Cristo) non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo “.(14)


– ” Comunità non piccole si sono staccate dalla piena comunione della Chiesa cattolica, talora non senza colpa di uomini d’entrambe le parti. Quelli poi che ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo in tali comunità non possono essere accusati del peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li abbraccia con fraterno rispetto e amore “.(15)


Al primo Anno Santo celebrato dopo il Concilio, nel 1975, Paolo VI aveva dato per tema ‘rinnovamento e riconciliazione’,16 precisando, nell’Esortazione apostolica Paterna cum benevolentia, che la riconciliazione doveva anzitutto operarsi tra i fedeli della Chiesa cattolica.(17) Come nella sua origine, l’Anno Santo restava un’occasione di conversione e di riconciliazione dei peccatori con Dio attraverso l’economia sacramentale della Chiesa.


1.3. Le richieste di perdono di Giovanni Paolo II


Non solo Giovanni Paolo II rinnova il rammarico per le ” dolorose memorie ” che scandiscono la storia delle divisioni tra i cristiani, come avevano fatto Paolo VI e il Concilio Vaticano II,(18) ma estende anche la richiesta di perdono a una moltitudine di fatti storici nei quali la Chiesa o singoli gruppi di cristiani sono stati implicati a titoli diversi.(19) Nella Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente (20) il Papa si augura che il Giubileo dell’Anno 2000 sia l’occasione per una purificazione della memoria della Chiesa da ” tutte le forme di contro-testimonianza e di scandalo ” succedutesi nel corso del millennio passato.(21)


La Chiesa è invitata a ” farsi carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli “. Essa ” riconosce sempre come propri i figli peccatori “, e li incita a ” purificarsi, nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze, ritardi “.(22) La responsabilità dei cristiani nei mali del nostro tempo è parimenti evocata,(23) anche se l’accento cade particolarmente sulla solidarietà della Chiesa d’oggi con le colpe passate, di cui alcune sono esplicitamente menzionate, come la divisione tra i cristiani,(24) o i ” metodi di violenza e di intolleranza ” utilizzati nel passato per evangelizzare.(25)


Lo stesso Giovanni Paolo II stimola l’approfondimento teologico sul farsi carico di colpe del passato e sull’eventuale domanda di perdono ai contemporanei (26) quando, nell’Esortazione Reconciliatio et paenitentia, afferma che, nel sacramento della penitenza, ” il peccatore si trova solo davanti a Dio con la sua colpa, il suo pentimento e la sua fiducia. Nessuno può pentirsi al suo posto o domandare perdono in suo nome “. Il peccato è dunque sempre personale, anche se ferisce la Chiesa intera, che, rappresentata dal sacerdote ministro della penitenza, è mediatrice sacramentale della grazia che riconcilia con Dio.(27) Anche le situazioni di ‘peccato sociale’ – che si verificano all’interno delle comunità umane quando la giustizia, la libertà e la pace risultano lese – ” sono sempre il frutto, l’accumulazione e la concentrazione di peccati personali “. Allorché la responsabilità morale risultasse diluita in cause anonime, non si potrebbe parlare di peccato sociale che per analogia.(28) Ne risulta che l’imputabilità di una colpa non può essere estesa propriamente al di là del gruppo di persone che vi hanno consentito volontariamente, mediante azioni o omissioni, o per negligenza.


1.4. Le questioni sollevate


La Chiesa è una società viva che attraversa i secoli. La sua memoria non è solo costituita dalla tradizione che rimonta agli Apostoli, normativa per la sua fede e la sua stessa vita, ma è anche ricca della varietà delle esperienze storiche, positive o negative, che essa ha vissuto. Il passato della Chiesa struttura in larga parte il suo presente. La tradizione dottrinale, liturgica, canonica, ascetica nutre la vita stessa della comunità credente, offrendole un campionario incomparabile di modelli da imitare. Lungo tutto il pellegrinaggio terreno, però, il grano buono resta sempre inestricabilmente mescolato alla zizzania, la santità si affianca all’infedeltà e al peccato.(29) Ed è così che il ricordo degli scandali del passato può ostacolare la testimonianza della Chiesa d’oggi e il riconoscimento delle colpe compiute dai figli della Chiesa di ieri può favorire il rinnovamento e la riconciliazione nel presente.


La difficoltà che si profila è quella di definire le colpe passate, a causa anzitutto del giudizio storico che ciò esige, perché in ciò che è avvenuto va sempre distinta la responsabilità o la colpa attribuibile ai membri della Chiesa in quanto credenti, da quella riferibile alla società dei secoli detti ‘di cristianità’ o alle strutture di potere nelle quali il temporale e lo spirituale erano allora strettamente intrecciati. Un’ermeneutica storica è dunque quanto mai necessaria per fare adeguata distinzione fra l’azione della Chiesa come comunità di fede e quella della società nei tempi di osmosi fra di esse.


I passi compiuti da Giovanni Paolo II per chiedere perdono di colpe del passato sono stati compresi in moltissimi ambienti, ecclesiali e non, come segni di vitalità e di autenticità della Chiesa, tali da rafforzare la sua credibilità. È giusto, peraltro, che la Chiesa contribuisca a modificare immagini di sé false e inaccettabili, specie nei campi in cui, per ignoranza o malafede, alcuni settori d’opinione si compiacciono nell’identificarla con l’oscurantismo e l’intolleranza. Le richieste di perdono formulate dal Papa hanno anche suscitato una positiva emulazione nell’ambito ecclesiale e al di là di esso. Capi di Stato o di governo, società private e pubbliche, comunità religiose domandano attualmente perdono per episodi o periodi storici segnati da ingiustizie. Questa prassi è tutt’altro che retorica, tanto che alcuni esitano ad accoglierla, calcolando i costi conseguenti – tra l’altro sul piano giudiziario – a un riconoscimento di solidarietà con colpe passate. Anche da questo punto di vista, urge dunque un discernimento rigoroso.


Non mancano tuttavia fedeli sconcertati, in quanto la loro lealtà verso la Chiesa sembra scossa. Alcuni di essi si chiedono come trasmettere l’amore alla Chiesa alle giovani generazioni se questa stessa Chiesa è imputata di crimini e di colpe. Altri osservano che il riconoscimento delle colpe è per lo più unilaterale e sfruttato dai detrattori della Chiesa, soddisfatti nel vederla confermare i pregiudizi che essi hanno nei suoi riguardi. Altri ancora mettono in guardia dal colpevolizzare arbitrariamente le generazioni attuali dei credenti per mancanze alle quali essi non acconsentono in nessun modo, pur dichiarandosi pronti ad assumersi le loro responsabilità nella misura in cui dei gruppi umani si sentissero ancora oggi toccati dalle conseguenze di ingiustizie subite dai loro predecessori in altri tempi. Alcuni, poi, ritengono che la Chiesa potrà purificare la sua memoria rispetto alle azioni ambigue nelle quali è stata coinvolta nel passato semplicemente prendendo parte al lavoro critico sulla memoria sviluppatosi nella nostra società. Così essa potrebbe affermare di condividere con i suoi contemporanei il rifiuto di ciò che la coscienza morale attuale riprova, senza proporsi come l’unica colpevole e responsabile dei mali del passato, ricercando al contempo il dialogo nella reciproca comprensione con quanti si sentissero ancora oggi feriti da atti passati imputabili ai figli della Chiesa. Infine, c’è da aspettarsi che alcuni gruppi possano reclamare una domanda di perdono nei loro confronti, o per analogia con altri o perché ritengono di aver subito dei torti. In ogni caso, la purificazione della memoria non potrà mai significare che la Chiesa rinunci a proclamare la verità rivelata, che le è stata confidata, sia nel campo della fede, che in quello della morale.


Si profilano, così, diversi interrogativi: si può investire la coscienza attuale di una ‘colpa’ collegata a fenomeni storici irripetibili, come le crociate o l’inquisizione? Non è fin troppo facile giudicare i protagonisti del passato con la coscienza attuale (come fanno Scribi e Farisei secondo Mt 23,29-32), quasi che la coscienza morale non sia situata nel tempo? E, d’altra parte, si può forse negare che il giudizio etico è sempre in gioco, per il semplice fatto che la verità di Dio e le sue esigenze morali hanno sempre valore? Quale che sia l’atteggiamento da adottare, esso dovrà fare i conti con queste domande, e cercare risposte che siano fondate nella rivelazione e nella sua vivente trasmissione nella fede della Chiesa. La questione prioritaria è dunque quella di chiarire in che misura le domande di perdono per le colpe del passato, soprattutto se indirizzate a gruppi umani attuali, entrino nell’orizzonte biblico e teologico della riconciliazione con Dio e con il prossimo.


2. APPROCCIO BIBLICO


È possibile sviluppare in vari modi un’indagine sul riconoscimento che Israele fa delle sue colpe nell’Antico Testamento e sul tema della confessione delle colpe così come esso si presenta nelle tradizioni del Nuovo Testamento.(30) La natura teologica della riflessione qui condotta induce a privilegiare un approccio di genere prevalentemente tematico, muovendo dalla domanda seguente: quale retroterra la testimonianza della Sacra Scrittura fornisce all’invito che Giovanni Paolo II fa alla Chiesa a confessare le colpe del passato?


2.1. L’Antico Testamento


Confessioni di peccati e connesse richieste di perdono si trovano in tutta la Bibbia, tanto nelle narrazioni dell’Antico Testamento, quanto nei Salmi, nei Profeti e nei Vangeli, come pure – più sporadicamente – nella Letteratura sapienziale e nelle Lettere del Nuovo Testamento. Data l’abbondanza e la diffusione di queste testimonianze, si pone la questione di come selezionare e catalogare la massa dei testi significativi. Ci si può chiedere circa i testi biblici relativi alla confessione dei peccati: chi sta confessando che cosa (e che genere di colpe) a chi? Porre così la questione aiuta a distinguere due categorie principali di ‘testi di confessione’, ciascuna delle quali comprende diverse sotto-categorie, e precisamente: a) testi di confessione di peccati individuali e b) testi di confessione dei peccati del popolo intero (e di quelli dei suoi antenati). In rapporto alla recente prassi ecclesiale da cui muove la nostra ricerca conviene restringere l’analisi alla seconda categoria.


In essa si possono identificare diverse possibilità, a seconda di chi fa la confessione dei peccati del popolo e di chi è associato o meno alla colpa comune, prescindendo dalla presenza o meno di una coscienza della responsabilità personale (maturata solo progressivamente: cf. Ez 14,12-23; 18,1-32; 33,10-20). In base a questi criteri si possono distinguere i seguenti casi, peraltro piuttosto fluidi:


– Una prima serie di testi rappresenta l’intero popolo (talvolta personificato come un singolo ‘Io’) che, in un particolare momento della sua storia confessa o allude ai suoi peccati contro Dio senza alcun (esplicito) riferimento alle colpe delle generazioni precedenti.(31)


– Un altro gruppo di testi situa la confessione – rivolta a Dio – dei peccati attuali del popolo sulle labbra di uno o più capi (religiosi), che possono o meno includersi esplicitamente nel popolo peccatore per cui pregano.(32)


– Un terzo gruppo di testi presenta il popolo o uno dei suoi capi nell’atto di evocare i peccati degli antenati, senza però far menzione di quelli della generazione presente.(33)


– Più di frequente le confessioni che menzionano le colpe degli antenati le collegano espressamente agli errori della generazione presente.(34)


Dalle testimonianze raccolte risulta che in tutti i casi dove sono menzionati i ‘peccati dei padri’ la confessione è indirizzata unicamente a Dio ed i peccati confessati dal popolo o per il popolo sono quelli commessi direttamente contro di Lui, piuttosto che quelli compiuti (anche) contro altri esseri umani (solo in Nm 21,7 si fa cenno a una parte umana lesa, Mosè).(35) Sorge la questione sul perché gli scrittori biblici non abbiano sentito il bisogno di richieste di perdono rivolte ad interlocutori presenti riguardo a colpe commesse dai padri, nonostante il loro forte senso della solidarietà fra le generazioni nel bene e nel male (si pensi all’idea della ‘personalità corporativa’). Varie ipotesi potrebbero essere avanzate in risposta a questa questione. C’è, anzitutto, il diffuso teocentrismo della Bibbia che dà la precedenza al riconoscimento sia individuale che nazionale delle colpe commesse verso Dio. Per di più, atti di violenza perpetrati da Israele contro altri popoli, che sembrerebbero esigere una richiesta di perdono a quei popoli o ai loro discendenti, sono intesi come l’esecuzione delle direttive divine riguardo ad essi, come ad esempio Gs 2-11 e Dt 7,2 (lo sterminio dei Cananei) o 1 Sam 15 e Dt 25,19 (la distruzione degli Amaleciti). In tali casi il mandato divino implicato parrebbe escludere ogni possibile richiesta di perdono da farsi.(36) Le esperienze subite da Israele di maltrattamenti da parte di altri popoli e l’animosità così suscitata potrebbero anche aver militato contro l’idea di chiedere perdono a questi popoli per il male ad essi arrecato.(37)


Resta comunque rilevante nella testimonianza biblica il senso della solidarietà intergenerazionale nel peccato (e nella grazia), che si esprime nella confessione davanti a Dio dei ‘peccati degli antenati’, tanto che – citando la splendida preghiera di Azaria – Giovanni Paolo II ha potuto affermare: ” ‘Benedetto sei tu, Signore, Dio dei nostri padri […] noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da Te, abbiamo mancato in ogni modo. Non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti’ (Dn 3,26.29) Così pregavano gli Ebrei dopo l’esilio (cf. anche Bar 2,11-13), facendosi carico delle colpe commesse dai loro padri. La Chiesa imita il loro esempio e chiede perdono per le colpe anche storiche dei suoi figli “.(38)


2.2. Il Nuovo Testamento


Un tema fondamentale, connesso con l’idea della colpa e presente ampiamente nel Nuovo Testamento, è quello dell’assoluta santità di Dio. Il Dio di Gesù è il Dio d’Israele (cf. Gv 4,22), invocato come ‘Padre santo’ (Gv 17,11), chiamato ‘il Santo’ in 1 Gv 2,20 (cf. Ap 6,10). La triplice proclamazione di Dio come ‘santo’ di Is 6,3 ritorna in Ap 4,8, mentre 1 Pt 1,16 insiste sul fatto che i cristiani devono essere santi ” poiché sta scritto: ‘Voi sarete santi, perché io sono santo’ ” (cf. Lv 11,44-45; 19,2). Tutto questo riflette la nozione veterotestamentaria dell’assoluta santità di Dio. Tuttavia, per la fede cristiana la santità divina è entrata nella storia nella persona di Gesù di Nazaret: la nozione veterotestamentaria non è stata abbandonata, ma sviluppata, nel senso che la santità di Dio si fa presente nella santità del Figlio incarnato (cf. Mc 1,24; Lc 1,35; 4,34; Gv 6,69; At 3,14; 4,27. 30; Ap 3,7), e la santità del Figlio è partecipata ai ‘Suoi’ (cf. Gv 17,16-19), resi figli nel Figlio (cf. Gal 4,4-6; Rm 8,14-17). Non può esserci però alcuna aspirazione alla filiazione divina in Gesù finché non vi sia amore per il prossimo (cf. Mc 12,29-31; Mt 22,37-38; Lc 10,27-28).


Questo motivo, decisivo nell’insegnamento di Gesù, diviene il ‘comandamento nuovo’ nel Vangelo di Giovanni: i discepoli dovranno amare come Lui ha amato (cf. Gv 13,34-35; 15,12. 17), cioè perfettamente, ‘fino alla fine’ (Gv 13,1). Il cristiano, cioè, è chiamato ad amare e perdonare secondo una misura che trascende ogni misura umana di giustizia e produce una reciprocità fra gli esseri umani che riflette quella fra Gesù e il Padre (cf. Gv 13,34s; 15,1-11; 17,21-26). In quest’ottica, grande rilievo è dato al tema della riconciliazione e del perdono delle offese. Ai suoi discepoli Gesù chiede di essere sempre pronti a perdonare quanti li abbiano offesi, così come Dio stesso offre sempre il suo perdono: ” Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori ” (Mt 6, 12. 12-15). Chi è in grado di perdonare al prossimo dimostra di aver compreso il bisogno che personalmente ha del perdono di Dio. Il discepolo è invitato a perdonare ” fino a settanta volte sette ” chi l’offende, anche se questi non domandasse perdono (cf. Mt 18,21-22).


Gesù insiste sull’atteggiamento richiesto alla persona offesa nei confronti dei suoi offensori: essa è chiamata a fare il primo passo, cancellando l’offesa mediante il perdono offerto ” di cuore ” (cf. Mt 18,35; Mc 11,25), consapevole di essere essa stessa peccatrice di fronte a Dio, che mai rifiuta il perdono invocato con sincerità. In Mt 5,23-24 Gesù chiede all’offensore di ” andare a riconciliarsi col proprio fratello, che ha qualche cosa contro di lui “, prima di presentare la sua offerta all’altare: non è gradito a Dio un atto di culto reso da chi non voglia prima riparare il danno causato al proprio prossimo. Ciò che conta è cambiare il proprio cuore e mostrare in maniera adeguata che si vuole realmente la riconciliazione. Il peccatore, comunque, nella coscienza che i suoi peccati feriscono al tempo stesso la sua relazione con Dio e quella col prossimo (cf. Lc 15,21), può aspettarsi il perdono solo da Dio, perché solo Dio è sempre misericordioso e pronto a cancellare i peccati. Questo è anche il significato del sacrificio di Cristo, che una volta per sempre ci ha purificati dai nostri peccati (cf. Eb 9,22; 10,18). Così l’offensore e l’offeso sono riconciliati da Dio nella Sua misericordia che tutti accoglie e perdona.


In questo quadro, che potrebbe ampliarsi mediante l’analisi delle Lettere di Paolo e delle Epistole Cattoliche, non v’è alcun indizio che la Chiesa delle origini abbia rivolto la sua attenzione ai peccati del passato per chiedere perdono. Ciò può spiegarsi con la forte consapevolezza della novità cristiana, che proietta la comunità piuttosto verso il futuro che verso il passato. Si incontra, tuttavia, una più ampia e sottile insistenza che pervade il Nuovo Testamento: nei Vangeli e nelle Lettere l’ambivalenza propria dell’esperienza cristiana è ampiamente riconosciuta. Per Paolo, ad esempio, la comunità cristiana è un popolo escatologico, che vive già la ‘nuova creazione’ (cf. 2 Cor 5,17; Gal 6,15), ma questa esperienza, resa possibile dalla morte e risurrezione di Gesù (cf. Rm 3,21-26; 5,6-11; 8,1-11; 1 Cor 15,54-57), non ci libera dall’inclinazione al peccato presente nel mondo a causa della caduta di Adamo. Come risultato dell’intervento divino nella e attraverso la morte e risurrezione di Gesù vi sono ora due scenari possibili: la storia di Adamo e quella di Cristo. Esse scorrono fianco a fianco ed il credente deve contare sulla morte e risurrezione del Signore Gesù (cf. ad esempio Rm 6,1-11; Gal 3,27-28; Col 3,10; 2 Cor 5,14-15) per esser parte della storia in cui ” sovrabbonda la grazia ” (cf. Rm 5,12-21).


Una simile rilettura teologica dell’evento pasquale di Cristo mostra come la Chiesa delle origini avesse un’acuta consapevolezza delle possibili mancanze dei battezzati. Si potrebbe dire che l’intero ‘corpus paulinum’ richiami i credenti a un riconoscimento pieno della loro dignità, pur nella viva coscienza della fragilità della loro condizione umana: ” Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù ” (Gal 5,1). Un analogo motivo può riscontrarsi dalle narrazioni dei Vangeli. Esso emerge incisivamente in Marco, dove le carenze dei discepoli di Gesù sono uno dei temi dominanti del racconto (cf. Mc 4,40-41; 6,36-37.51-52; 8,14-21.31-33; 9,5-6.32-41; 10,32-45; 14,10-11.17-21.27-31.50; 16,8). Sebbene sia comprensibilmente sfumato, lo stesso motivo ritorna in tutti gli Evangelisti. Giuda e Pietro sono rispettivamente il traditore e colui che rinnega il Maestro, anche se Giuda giunge alla disperazione per l’atto compiuto (cf. At 1,15-20), mentre Pietro si pente (cf. Lc 22,61s) e perviene alla triplice professione di amore (cf. Gv 21,15-19). In Matteo, perfino durante l’apparizione finale del Signore risorto, mentre i discepoli lo adorano, ” alcuni ancora dubitavano ” (Mt 28,17). Il Quarto Vangelo presenta i discepoli come quelli cui è donato un incommensurabile amore, sebbene la loro risposta sia fatta di ignoranza, mancanze, rinnegamento e tradimento (cf. 13,1-38).


Questa costante presentazione dei discepoli chiamati a seguire Gesù, che vacillano nella loro arrendevolezza al peccato, non è semplicemente una rilettura critica della storia delle origini. I racconti sono impostati in modo da rivolgersi a ogni successivo discepolo di Cristo in difficoltà, che guarda al Vangelo come alla propria guida e ispirazione. Peraltro il Nuovo Testamento è pieno di raccomandazioni a comportarsi bene, a vivere un più alto livello di impegno, ad evitare il male (cf. ad esempio Gc 1,5-8.19-21; 2,1-7; 4,1-10; 1 Pt 1,13-25; 2 Pt 2,1-22; Gd 3-13; 1 Gv 1,5-10; 2,1-11.18-27; 4,1-6; 2 Gv 7-11; 3 Gv 9-10). Non c’è però alcun esplicito richiamo indirizzato ai primi cristiani a confessare delle colpe del passato, anche se è certo molto significativo il riconoscimento della realtà del peccato e del male anche all’interno del popolo chiamato all’esistenza escatologica propria della condizione cristiana (si pensi solo ai rimproveri contenuti nelle lettere alle sette Chiese dell’Apocalisse). Secondo la petizione che si trova nella preghiera del Signore questo popolo invoca: ” Perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore ” (Lc 11,4; cf. Mt 6,12). I primi cristiani, insomma, mostrano di essere ben consapevoli di poter agire in maniera non corrispondente alla vocazione ricevuta, non vivendo il battesimo della morte e risurrezione di Gesù con cui erano stati battezzati.


2.3. Il Giubileo biblico


Un significativo retroterra biblico della riconciliazione legata al superamento di situazioni passate è rappresentato dalla celebrazione del Giubileo, così come è regolata nel libro del Levitico (cap. 25). In una struttura sociale fatta di tribù, clan e famiglie, inevitabilmente si creavano situazioni di disordine quando individui o famiglie di condizioni disagevoli dovevano ‘riscattare’ se stessi dalle proprie difficoltà consegnando la proprietà della loro terra o casa o di servi o figli a coloro che erano in condizioni migliori delle loro. Un tale sistema aveva come effetto che alcuni Israeliti venivano a soffrire situazioni intollerabili di debito, di povertà e di schiavitù in quella stessa terra, che era stata data ad essi da Dio, a vantaggio di altri figli d’Israele. Tutto questo poteva far sì che in periodi più o meno lunghi di tempo un territorio o un clan cadessero nelle mani di pochi ricchi, mentre il resto delle famiglie del clan veniva a trovarsi in una forma di debito o di servitù, tale da dover vivere in totale dipendenza dai più benestanti.


La legislazione di Lv 25 costituisce un tentativo di capovolgere tutto questo (tanto da poter dubitare che sia mai stata messa in pratica pienamente!): essa convocava la celebrazione del Giubileo ogni 50 anni al fine di preservare il tessuto sociale del popolo di Dio e restituire l’indipendenza anche alla più piccola famiglia del paese. È decisiva per Lv 25 la regolare ripetizione della confessione di fede d’Israele nel Dio che ha liberato il Suo popolo attraverso l’Esodo: ” Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto, per darvi il paese di Canaan, per essere il vostro Dio ” (Lv 25,38; cf. vv. 42.45). La celebrazione del Giubileo era un’implicita ammissione di colpa e un tentativo di ristabilire un ordine giusto. Ogni sistema che alienasse un qualunque Israelita, una volta schiavo, ma ora liberato dal braccio potente di Dio, veniva di fatto a smentire l’azione salvifica divina nell’Esodo e attraverso di esso.


La liberazione delle vittime e dei sofferenti diventa parte del più ampio programma dei profeti. Il Deutero-Isaia, nei Carmi del Servo sofferente (Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12), sviluppa queste allusioni alla pratica del Giubileo con i temi del riscatto e della libertà, del ritorno e della redenzione. Isaia 58 è un attacco contro l’osservanza rituale che non ha riguardo per la giustizia sociale, un richiamo alla liberazione degli oppressi (Is 58,6), centrato specificamente sugli obblighi di parentela (v. 7). Più chiaramente, Isaia 61 usa le immagini del Giubileo per ritrarre l’Unto come l’araldo di Dio inviato ad ‘evangelizzare’ i poveri, a proclamare la libertà ai prigionieri e ad annunciare l’anno di grazia del Signore. È significativamente proprio questo testo, con un’allusione a Isaia 58,6, che Gesù usa per presentare il compito della sua vita e del suo ministero in Luca 4,17-21.


2.4. Conclusione


Da quanto detto si può concludere che l’appello rivolto da Giovanni Paolo II alla Chiesa perché caratterizzi l’anno giubilare con un’ammissione di colpa per tutte le sofferenze e le offese di cui i suoi figli sono stati responsabili nel passato,(39) così come la prassi ad esso congiunta, non trovano un riscontro univoco nella testimonianza biblica. Tuttavia, essi si basano su quanto la Sacra Scrittura afferma riguardo alla santità di Dio, alla solidarietà intergenerazionale del Suo popolo e al riconoscimento del suo essere peccatore. L’appello del Papa coglie inoltre correttamente lo spirito del Giubileo biblico, che richiede che siano compiuti atti volti a ristabilire l’ordine dell’originario disegno di Dio sulla creazione. Ciò esige che la proclamazione dell”oggi’ del Giubileo, iniziato da Gesù (cf. Lc 4,21), sia continuata nella celebrazione giubilare della Sua Chiesa. Questa singolare esperienza di grazia, inoltre, spinge il popolo di Dio tutto intero, come ciascuno dei battezzati, a prendere ancor più coscienza del mandato ricevuto dal Signore di essere sempre pronti a perdonare le offese ricevute.


3. FONDAMENTI TEOLOGICI


” È giusto che, mentre il secondo millennio del cristianesimo volge al termine, la Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui, nell’arco della storia, essi si sono allontanati dallo spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e di agire che erano vere forme di controtestimonianza e di scandalo. La Chiesa, pur essendo santa per la sua incorporazione a Cristo, non si stanca di fare penitenza: essa riconosce sempre come propri, davanti a Dio e agli uomini, i figli peccatori “.(40) Queste parole di Giovanni Paolo II sottolineano come la Chiesa sia toccata dal peccato dei suoi figli: santa, in quanto resa tale dal Padre mediante il sacrificio del Figlio e il dono dello Spirito, essa è in un certo senso anche peccatrice, in quanto assume realmente su di sé il peccato di coloro che essa stessa ha generato nel battesimo, analogamente a come il Cristo Gesù ha assunto il peccato del mondo (cf. Rm 8,3; 2 Cor 5,21; Gal 3,13; 1 Pt 2,24).(41) Appartiene peraltro alla più profonda autocoscienza ecclesiale nel tempo il convincimento che la Chiesa non sia solo una comunità di eletti, ma comprenda nel suo seno giusti e peccatori del presente, come del passato, nell’unità del mistero, che la costituisce. Nella grazia, infatti, come nella ferita del peccato, i battezzati di oggi sono vicini e solidali a quelli di ieri. Perciò si può dire che la Chiesa – una nel tempo e nello spazio in Cristo e nello Spirito – è veramente ” santa insieme e sempre bisognosa di purificazione “.(42) Da questo paradosso – caratteristico del mistero ecclesiale – nasce l’interrogativo su come si concilino i due aspetti: da una parte, l’affermazione di fede della santità della Chiesa; dall’altra, il suo incessante bisogno di penitenza e di purificazione.


3.1. Il mistero della Chiesa


” La Chiesa è nella storia, ma nello stesso tempo la trascende. È unicamente ‘con gli occhi della fede’ che si può scorgere nella sua realtà visibile una realtà contemporaneamente spirituale, portatrice di vita divina “.(43) L’insieme degli aspetti visibili e storici si rapporta al dono divino in modo analogo a come nel Verbo di Dio incarnato l’umanità assunta è segno e strumento dell’agire della Persona divina del Figlio: le due dimensioni dell’essere ecclesiale formano ” una sola complessa realtà risultante di un elemento umano e di un elemento divino “,(44) in una comunione, che partecipa della vita trinitaria e fa sì che i battezzati si sentano uniti fra di loro pur nella diversità dei tempi e dei luoghi della storia. In forza di questa comunione, la Chiesa si presenta come un soggetto assolutamente unico nella vicenda umana, tale da potersi far carico dei doni, dei meriti e delle colpe dei suoi figli di oggi, come di quelli di ieri.


La non debole analogia col mistero del Verbo incarnato implica tuttavia anche una fondamentale differenza: ” Mentre Cristo ‘santo, innocente, immacolato’ (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cf. 2 Cor 5,21), ma venne allo scopo di espiare i soli peccati del popolo (cf. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno i peccatori, santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento “.(45) L’assenza di peccato nel Verbo Incarnato non può attribuirsi al Suo Corpo ecclesiale, al cui interno, anzi, ciascuno – partecipe della grazia donata da Dio – è non di meno bisognoso di vigilanza e di incessante purificazione e solidale con la debolezza degli altri: ” Tutti i membri della Chiesa, compresi i suoi ministri, devono riconoscersi peccatori (cf. 1 Gv 1,8-10). In tutti, sino alla fine dei tempi, la zizzania del peccato si trova ancora mescolata al buon grano del Vangelo (cf. Mt 13,24-30). La Chiesa raduna dunque dei peccatori raggiunti dalla salvezza di Cristo, ma sempre in via di santificazione “.(46)


Già Paolo VI aveva solennemente affermato che ” la Chiesa è santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia. […] Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui peraltro ha il potere di guarire i suoi figli con il sangue di Cristo e il dono dello Spirito Santo “.(47) La Chiesa è insomma nel suo ‘mistero’ incontro di santità e di debolezza continuamente redenta e sempre di nuovo bisognosa della forza della redenzione. Come insegna la liturgia, vera ‘lex credendi’, il singolo fedele e il popolo dei santi invocano da Dio che il Suo sguardo si posi sulla fede della Sua Chiesa e non sui peccati dei singoli, che di questa fede vissuta sono la negazione: ” Ne respicias peccata nostra, sed fidem Ecclesiae tuae! “. Nell’unità del mistero ecclesiale attraverso il tempo e lo spazio è possibile allora considerare l’aspetto della santità, il bisogno di pentimento e di riforma, e la loro articolazione nell’agire della Chiesa Madre.


3.2. La santità della Chiesa


La Chiesa è santa perché, santificata da Cristo, che l’ha acquistata consegnandosi alla morte per lei, è mantenuta nella santità dallo Spirito Santo, che la pervade incessantemente: ” Noi crediamo che la Chiesa è indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è proclamato ‘il solo santo’, ha amato la Chiesa come sua sposa e ha dato se stesso per lei, al fine di santificarla (cf. Ef 5,25s), e l’ha unita a sé come suo corpo e l’ha riempita col dono dello Spirito Santo, per la gloria di Dio. Perciò tutti nella Chiesa sono chiamati alla santità “.(48) In questo senso, sin dalle origini i membri della Chiesa sono chiamati i ‘santi’ (cf. At 9,13; 1 Cor 6,1s; 16,1). Si può distinguere, tuttavia, la santità della Chiesa dalla santità nella Chiesa. La prima – fondata nelle missioni del Figlio e dello Spirito – garantisce la continuità della missione del popolo di Dio sino alla fine dei tempi e stimola ed aiuta i credenti a perseguire la santità soggettiva e personale. Nella vocazione che ciascuno riceve è invece radicata la forma di santità che gli è stata donata e che da lui si richiede, compimento pieno della propria vocazione e missione. La santità personale è in ogni caso proiettata verso Dio e verso gli altri ed ha perciò un carattere essenzialmente sociale: è santità ‘nella Chiesa’, orientata al bene di tutti.


Alla santità della Chiesa deve dunque corrispondere la santità nella Chiesa: ” I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuta “.(49) Il battezzato è chiamato a divenire con tutta la sua esistenza ciò che è diventato in forza della consacrazione battesimale: e questo non avviene senza l’assenso della sua libertà e l’aiuto della Grazia che viene da Dio. Quando ciò avviene, si lascia riconoscere nella storia l’umanità nuova secondo Dio: nessuno diventa se stesso tanto pienamente, quanto il santo che accoglie il piano divino e con l’aiuto della Grazia conforma tutto il proprio essere al progetto dell’Altissimo! I santi sono in questo senso come delle luci suscitate dal Signore in mezzo alla sua Chiesa per illuminarla, profezia per il mondo intero.


3.3. La necessità di un continuo rinnovamento


Senza offuscare questa santità, si deve riconoscere che a causa della presenza del peccato c’è bisogno di un continuo rinnovamento e di una costante conversione nel popolo di Dio: la Chiesa sulla terra è ” adornata di una santità vera “, che però è ” imperfetta “.(50) Osserva Agostino contro i Pelagiani: ” La Chiesa nel suo insieme dice: Rimetti a noi i nostri debiti! Essa quindi ha delle macchie e delle rughe. Ma mediante la confessione le rughe vengono appianate, mediante la confessione le macchie vengono lavate. La Chiesa sta in preghiera per essere purificata dalla confessione, e finché vivranno gli uomini sulla terra essa starà così “.(51) E Tommaso d’Aquino precisa che la pienezza della santità appartiene al tempo escatologico, mentre la Chiesa peregrinante non deve ingannarsi, affermando di essere senza peccato: ” Che la Chiesa sia gloriosa, senza macchia né ruga, è lo scopo finale verso cui tendiamo in virtù della passione di Cristo. Ciò si avrà pertanto solo nella patria eterna, e non già nel pellegrinaggio; qui […] ci inganneremmo se dicessimo di non aver alcun peccato “.(52) In realtà, ” sebbene rivestiti della veste battesimale, noi non cessiamo di peccare, di allontanarci da Dio. Ora, con la domanda ‘Rimetti a noi i nostri debiti’, torniamo a lui, come il figlio prodigo (cf. Lc 15,11-32), e ci riconosciamo peccatori davanti a lui, come il pubblicano (cf. Lc 18,13). La nostra richiesta inizia con la nostra ‘confessione’, con la quale confessiamo ad un tempo la nostra miseria e la sua misericordia “.(53)


È pertanto la Chiesa intera che, mediante la confessione del peccato dei suoi figli, confessa la sua fede in Dio e ne celebra l’infinita bontà e capacità di perdono: grazie al vincolo stabilito dallo Spirito Santo la comunione che esiste fra tutti i battezzati nel tempo e nello spazio è tale, che in essa ciascuno è se stesso, ma nello stesso tempo è condizionato dagli altri ed esercita su di loro un influsso nello scambio vitale dei beni spirituali. In tal modo, la santità degli uni influenza la crescita nel bene degli altri, ma anche il peccato non ha mai soltanto una rilevanza esclusivamente individuale, perché pesa e oppone resistenza sul cammino della salvezza di tutti e in tal senso tocca veramente la Chiesa nella sua interezza, attraverso la varietà dei tempi e dei luoghi. Questa convinzione spinge i Padri ad affermazioni nette come questa di Ambrogio: ” Stiamo bene attenti a che la nostra caduta non diventi una ferita della Chiesa “.(54) Essa, perciò, ” pur essendo santa per la sua incorporazione a Cristo, non si stanca di fare penitenza: e riconosce sempre come propri, davanti a Dio e agli uomini, i figli peccatori “,(55) quelli di oggi, come quelli di ieri.


3.4. La maternità della Chiesa


La convinzione che la Chiesa possa farsi carico del peccato dei suoi figli in forza della solidarietà esistente fra di essi nel tempo e nello spazio grazie alla loro incorporazione a Cristo e all’opera dello Spirito Santo, è espressa in modo particolarmente efficace dall’idea della ‘Chiesa Madre’ (‘Mater Ecclesia’), che ” nella concezione protopatristica è il concetto centrale di tutto l’anelito cristiano “: (56) la Chiesa – afferma il Vaticano II – ” per mezzo della Parola di Dio accolta con fedeltà diventa essa pure madre, poiché con la predicazione ed il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio “.(57) Alla vastissima tradizione, di cui queste idee sono eco, dà voce ad esempio Agostino con queste parole: ” Questa santa madre degna di venerazione, la Chiesa, è uguale a Maria: essa partorisce ed è vergine, da lei siete nati – essa genera Cristo, perché voi siete le membra di Cristo “.(58) Cipriano di Cartagine afferma nettamente: ” Non può avere Dio per padre chi non ha la Chiesa come madre “.(59) E Paolino di Nola canta così la maternità della Chiesa: ” Come madre riceve il seme della Parola eterna, porta i popoli nel grembo e li dà alla luce “.(60)


Secondo questa visione, la Chiesa si realizza continuamente nello scambio e nella comunicazione dello Spirito dall’uno all’altro dei credenti come ambiente generatore di fede e di santità nella comunione fraterna, nell’unanimità orante, nella partecipazione solidale alla Croce, nella testimonianza comune. In forza di questa comunicazione vitale ciascun battezzato può essere considerato al tempo stesso figlio della Chiesa, in quanto generato in essa alla vita divina, e Chiesa Madre, in quanto coopera con la sua fede e la sua carità a generare nuovi figli per Dio: è anzi tanto più Chiesa Madre, quanto più grande è la sua santità e più ardente lo sforzo di comunicare ad altri il dono ricevuto. D’altra parte, non cessa di essere figlio della Chiesa il battezzato che a causa del peccato si separasse col cuore da essa: egli potrà sempre di nuovo accedere alle sorgenti della grazia e rimuovere il peso che la sua colpa fa gravare sull’intera comunità della Chiesa Madre. Questa, a sua volta, come vera Madre non potrà non essere ferita dal peccato dei suoi figli di oggi, come di ieri, continuando sempre ad amarli, al punto da farsi carico in ogni tempo del peso prodotto dalle loro colpe: in quanto tale, la Chiesa appare ai Padri come Madre dei dolori, non solo a causa delle persecuzioni esterne, ma soprattutto per i tradimenti, i fallimenti, i ritardi e le contaminazioni dei suoi figli.


La santità e il peccato nella Chiesa si riflettono dunque nei loro effetti sulla Chiesa intera, anche se è convinzione della fede che la santità sia più forte del peccato in quanto frutto della grazia divina: ne sono prova luminosa le figure dei santi, riconosciuti come modello e aiuto per tutti! Fra la grazia e il peccato non c’è un parallelismo, e neppure una sorta di simmetria o di rapporto dialettico: l’influsso del male non potrà mai vincere la forza della grazia e l’irradiazione del bene, anche il più nascosto! In questo senso la Chiesa si riconosce esistenzialmente santa nei suoi santi: mentre però si rallegra di questa santità e ne avverte il beneficio, si confessa non di meno peccatrice, non in quanto soggetto del peccato, ma in quanto assume con solidarietà materna il peso delle colpe dei suoi figli, per cooperare al loro superamento sulla via della penitenza e della novità di vita. Perciò, la Chiesa santa avverte il dovere ” di rammaricarsi profondamente per le debolezze di tanti suoi figli, che ne hanno deturpato il volto, impedendole di riflettere pienamente l’immagine del suo Signore crocifisso, testimone insuperabile di amore paziente e di umile mitezza “.(61)


Ciò può essere fatto in modo particolare da chi per carisma e ministero esprime nella forma più densa la comunione del popolo di Dio: a nome delle Chiese locali potranno dar voce alle eventuali confessioni di colpa e richieste di perdono i rispettivi Pastori; a nome della Chiesa intera, una nel tempo e nello spazio, potrà pronunciarsi Colui che esercita il ministero universale di unità, il Vescovo della Chiesa ” che presiede nell’amore “,(62) il Papa. Ecco perché è particolarmente significativo che sia venuto proprio da Lui l’invito a che ” la Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli ” e riconosca la necessità di farne ” ammenda, invocando con forza il perdono di Cristo “.(63)


4. GIUDIZIO STORICO E GIUDIZIO TEOLOGICO


L’individuazione delle colpe del passato di cui fare ammenda implica anzitutto un corretto giudizio storico, che sia alla base anche della valutazione teologica. Ci si deve domandare: che cosa è precisamente avvenuto? che cosa è stato propriamente detto e fatto? Solo quando a questi interrogativi sarà stata data una risposta adeguata, frutto di un rigoroso giudizio storico, ci si potrà anche chiedere se ciò che è avvenuto, che è stato detto o compiuto può essere interpretato come conforme o no al Vangelo, e, nel caso non lo fosse, se i figli della Chiesa che hanno agito così avrebbero potuto rendersene conto a partire dal contesto in cui operavano. Unicamente quando si perviene alla certezza morale che quanto è stato fatto contro il Vangelo da alcuni figli della Chiesa ed a suo nome avrebbe potuto essere compreso da essi come tale ed evitato, può aver significato per la Chiesa di oggi fare ammenda di colpe del passato.


Il rapporto tra ‘giudizio storico’ e ‘giudizio teologico’ risulta dunque tanto complesso, quanto necessario e determinante. Perciò, occorre metterlo in atto senza prevaricazioni da una parte o dall’altra: ciò che bisogna evitare è tanto un’apologetica che voglia tutto giustificare, quanto un’indebita colpevolizzazione, fondata sull’attribuzione di responsabilità storicamente insostenibili. Ha affermato Giovanni Paolo II, riferendosi alla valutazione storico-teologica dell’opera dell’Inquisizione: ” Il Magistero ecclesiale non può certo proporsi di compiere un atto di natura etica, quale è la richiesta di perdono, senza prima essersi esattamente informato circa la situazione di quel tempo. Ma neppure può appoggiarsi sulle immagini del passato veicolate dalla pubblica opinione, giacché esse sono spesso sovraccariche di una emotività passionale che impedisce la diagnosi serena ed obiettiva […]. Ecco perché il primo passo consiste nell’interrogare gli storici, ai quali non viene chiesto un giudizio di natura etica, che sconfinerebbe dall’ambito delle loro competenze, ma di offrire un aiuto alla ricostruzione il più possibile precisa degli avvenimenti, degli usi, della mentalità di allora, alla luce del contesto storico dell’epoca “.(64)


4.1. L’interpretazione della storia


Quali sono le condizioni di una corretta interpretazione del passato dal punto di vista del sapere storico? Per determinarle, occorre tener conto della complessità del rapporto che intercorre fra il soggetto che interpreta e il passato oggetto dell’interpretazione: (65) in primo luogo, va sottolineata la reciproca estraneità fra di essi. Eventi o parole del passato sono anzitutto ‘passati’: come tali essi non sono riducibili totalmente alle istanze attuali, ma hanno uno spessore e una complessità oggettivi, che impediscono di disporne in maniera unicamente funzionale agli interessi del presente. Bisogna pertanto accostarsi ad essi mediante un’indagine storico-critica, che miri ad utilizzare tutte le informazioni accessibili in vista della ricostruzione dell’ambiente, dei modi di pensare, dei condizionamenti e del processo vitale in cui quegli eventi e quelle parole si collocano, per accertare in tal modo i contenuti e le sfide che – proprio nella loro diversità – essi propongono al nostro presente.


In secondo luogo, fra chi interpreta e ciò che è interpretato si deve riconoscere una certa coappartenenza, senza la quale nessun legame e nessuna comunicazione potrebbero sussistere fra passato e presente: questo legame comunicativo è fondato nel fatto che ogni essere umano di ieri o di oggi si situa in un complesso di relazioni storiche ed ha bisogno per viverle della mediazione linguistica, sempre storicamente determinata. Tutti apparteniamo alla storia! Mettere in luce la coappartenenza fra l’interprete e l’oggetto dell’interpretazione – che deve essere raggiunto attraverso le molteplici forme in cui il passato ha lasciato testimonianza di sé (testi, monumenti, tradizioni, ecc.) – vuol dire giudicare della correttezza delle possibili corrispondenze e delle eventuali difficoltà di comunicazione col presente rilevate dalla propria intelligenza delle parole o degli eventi passati: ciò esige di tener conto delle domande che motivano la ricerca e della loro incidenza sulle risposte ottenute, del contesto vitale in cui si opera e della comunità interpretante, il cui linguaggio si parla ed alla quale si intende parlare. A tal fine è necessario rendere il più possibile riflessa e consapevole la precomprensione, che di fatto è sempre inclusa in ogni interpretazione, per misurarne e temperarne la reale incidenza sul processo interpretativo.


Infine, fra chi interpreta e il passato oggetto dell’interpretazione viene a compiersi, attraverso lo sforzo conoscitivo e valutativo, una osmosi (‘fusione di orizzonti’), in cui consiste propriamente l’atto della comprensione. In essa si esprime quella che si giudica essere l’intelligenza corretta degli eventi o delle parole del passato: il che equivale a cogliere il significato che essi possono avere per l’interprete e il suo mondo. Grazie a questo incontro di mondi vitali la comprensione del passato si traduce nella sua applicazione al presente: il passato è colto nelle potenzialità che schiude, nello stimolo che offre a modificare il presente; la memoria diventa capace di suscitare nuovo futuro.


All’osmosi feconda col passato si giunge attraverso l’intreccio di alcune operazioni ermeneutiche fondamentali, corrispondenti ai momenti indicati dell’estraneità, della coappartenenza e della comprensione vera e propria. In relazione a un ‘testo’ del passato – inteso in generale come testimonianza scritta, orale, monumentale o figurativa – queste operazioni possono essere espresse così: ” 1) Capire il testo, 2) giudicare della correttezza della propria intelligenza del testo e 3) esprimere quella che si giudica essere l’intelligenza corretta del testo “.(66) Capire la testimonianza del passato vuol dire raggiungerla il più possibile nella sua oggettività, attraverso tutte le fonti di cui è possibile disporre; giudicare della correttezza della propria interpretazione significa verificare con onestà e rigore in che misura essa possa essere stata orientata o comunque condizionata dalla precomprensione e dai possibili pregiudizi dell’interprete; esprimere l’interpretazione raggiunta significa rendere gli altri partecipi del dialogo intessuto col passato, sia per verificarne la rilevanza, sia per esporsi al confronto di eventuali altre interpretazioni.


4.2. Indagine storica e valutazione teologica


Se queste operazioni sono presenti in ogni atto ermeneutico, esse non possono mancare neanche nell’interpretazione in cui giudizio storico e giudizio teologico vengono a integrarsi: ciò esige in primo luogo che in questo tipo di interpretazione si presti la massima attenzione agli elementi di differenziazione ed estraneità fra presente e passato. In particolare, quando si intende giudicare di possibili colpe del passato occorre tener presente che diversi sono i tempi storici, diversi i tempi sociologici e culturali dell’agire ecclesiale, per cui paradigmi e giudizi propri di una società e di un’epoca potrebbero essere erroneamente applicati nella valutazione di altre fasi della storia, generando non pochi equivoci; diverse sono le persone, le istituzioni e le loro rispettive competenze; diverse le maniere di pensare e diversi i condizionamenti. Vanno perciò precisate le responsabilità degli eventi e delle parole dette, tenendo conto del fatto che una richiesta ecclesiale di perdono impegna lo stesso soggetto teologico – la Chiesa – nella varietà dei modi e dei gradi con cui i singoli rappresentano la comunità ecclesiale e nella diversità delle situazioni storiche e geografiche, fra di loro spesso molto differenti. Ogni generalizzazione va evitata. Ogni eventuale pronunciamento attuale va situato e deve essere prodotto dai soggetti più propriamente chiamati in causa (Chiesa universale, Episcopati nazionali, Chiese particolari, ecc.).


In secondo luogo, la correlazione di giudizio storico e giudizio teologico deve tener conto del fatto che, per l’interpretazione della fede, il legame fra passato e presente non è motivato solo dall’interesse attuale e dalla comune appartenenza di ogni essere umano alla storia e alle sue mediazioni espressive, ma si fonda anche sull’azione