Elogio della ragione

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Nell’epoca del pensiero debole, la certezza di una fede ragionevole perché corrispondente al vero e alle attese del cuore.
Brani da una intervista del Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, rilasciata al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung dell’8 marzo scorso


A CURA DI PATRICK BAHNERS E CHRISTIAN GEYER

Eminenza, lei ha espresso la tesi che la crisi del cristianesimo si possa ricondurre alla crisi del concetto di verità. Proprio in questo senso il Papa ha ribadito il legame tra fede e ragione nella sua più recente enciclica. Ambedue questi pronunciamenti non si rifanno proprio a quel concetto di ragione forte che la filosofia postmoderna ha smentito con buone ragioni? Non converrebbe alla Chiesa oggi reclamare per sé un concetto di ragione debole piuttosto che forte? In fondo il concetto frammentato di verità della postmodernità lascia proprio quello spazio che la Chiesa potrebbe occupare senza contraddizioni col suo messaggio di fede.


Naturalmente c’è qualcosa di vero nel concetto postmoderno di ragione debole. Lei conosce certamente le parole di Aristotele, secondo le quali la nostra ragione è come l’occhio della civetta nei confronti della grande luce di Dio, che dunque non può vedere per nulla; anche il Concilio Vaticano I, che ha elaborato un concetto di ragione molto forte, ha aggiunto, allo stesso tempo, che nei contesti contemporanei la ragione è così indebolita da avere bisogno di aiuto, poiché da sola non ce la fa a riconoscere la verità. Negare questa debolezza fattuale della ragione sarebbe effettivamente irragionevole. Ma è qualcosa di diverso se si dice che le congiunture storiche rendono difficile alla ragione il riconoscimento della verità stessa e di Dio o se si dice che nell’uomo non c’è nessun organo atto alla conoscenza della verità. Ed è proprio quest’ultima posizione che viene sostenuta in molte versioni del concetto postmoderno di ragione debole. Questa sarebbe, allora, una debolezza di ragione sulla quale si apporrebbe la fede come pura fede, in un certo senso senza pretesa di conoscenza della verità. In questa prospettiva la fede sarebbe una risposta che non può seguire alla ragione, ma che illumina soggettivamente determinati uomini e che soddisfa le loro soggettive esigenze religiose.


Ma chi può dire come la verità in verità si comporta? La ragionevolezza della fede non si mostra proprio nel fatto che lascia aperta la domanda sulla propria dimostrabilità, in senso positivamente pragmatico, puntando più sulla speranza che non sulla conoscenza? Non ci si potrebbe limitare, con Richard Rorty, a leggere il cristianesimo come una tradizione accanto ad altre tradizioni funzionanti, senza quindi tematizzare la pretesa di verità?


Se la ragione non è una sfera aperta alla fede, che è poi dalla fede raccolta e portata avanti, se essa stessa non è un luogo che può entrare in stretto rapporto con la fede, allora la fede rimane qualcosa di irragionevole, viene ridotta fideisticamente, appartiene quindi all’ambito dell’abitudine e non all’ambito della verità. Già Tertulliano ha coniato questa bellissima proposizione: Cristo non ha detto: “Io sono l’Abitudine”, bensì: “Io sono la Verità”. Quand’anche certe tradizioni religiose vogliano giustificarsi attraverso il loro essere tradizioni, il cristianesimo è sempre voluto essere di più che non solo qualcosa di giustificabile attraverso tradizione, abitudini, culture. Esso vuole essere creduto come la via, la verità e la vita – una pretesa che di fatto apparirebbe irragionevole, se non fosse stata donata da Dio stesso in Gesù Cristo, e con ciò resa comprensibile in modo ragionevole. Fin dall’inizio la fede cristiana ha portato in sé la dinamica di voler essere testimoniata sino ai confini del mondo. Ciò è giustificabile solo se essa non testimonia solo la sua cultura, se non testimonia solo delle tradizioni, bensì se essa si rivolge alle comuni attese umane – a una comune capacità di comprensione -, che si sentono poi davvero comprese e, per così dire, rilanciate e aperte in Cristo, e che dunque contribuiscono a un’intima unità tra gli uomini.
(…)


Da ultimo, Eminenza, ancora uno sguardo sulla teologia a livello planetario. All’inizio del nuovo millennio si ha l’impressione che i problemi d’incomprensione tra le singole posizioni teologiche all’interno del cristianesimo siano diventati così eclatanti che non si possa nemmeno più parlare di poli all’interno di un medesimo spettro, bensì di diverse stelle che orbitano accanto più o meno senza rapporto alcuno. In questo contesto è nell’aria la richiesta di convocare un nuovo Concilio o un nuovo Sinodo generale, in modo da esprimere apertamente i conflitti, che covano dal Concilio Vaticano II, e possibilmente veicolarli verso soluzioni accettabili.


Forse anche lei conosce l’aneddoto a proposito del vescovo e teologo Gregorio Nazianzeno, il quale, allorché l’imperatore lo invitò nel 380 al Concilio di Costantinopoli, rispose per lettera: “Non andrò assolutamente mai più a un Concilio, poiché lì non ho mai fatto altra esperienza se non quella di liti, arrabbiature e conflitti moltiplicati: rende tutto semplicemente peggiore”. Questa era l’esperienza che Gregorio aveva avuto coi Concili del IV secolo, indubbiamente giusta vista da una prospettiva storica ravvicinata. Da una prospettiva più lontana, noi dobbiamo affermare che questi Concili furono fondamentali e furono fenomeni positivi per l’autocoscienza della Chiesa e della sua fede. Ma ciò che è da sottolineare in quella lettera – che, tra l’altro, Lutero citò poi con molto compiacimento, quando pure lui non ebbe più voglia di un Concilio – è la constatazione che un Concilio rappresenta sempre una forte ingerenza nell’organismo-Chiesa. Personalmente voglio paragonarlo a una pesante operazione chirurgica. In questo senso, a volte un intervento del genere deve sicuramente avvenire. Ma si deve anche riflettere sul fatto che ogni intervento chirurgico provoca nell’organismo anzitutto confusione e complicazioni e non porta automaticamente semplicemente miglioramenti.
Vediamo, infatti – penso che nessuno possa seriamente negarlo -, che terribile sconvolgimento il Vaticano II ha provocato nella Chiesa cattolica e nella cristianità tutta. Fintanto che non è avvenuta la traduzione positiva di questo sconvolgimento, personalmente penso che un nuovo intervento di questo genere provocherebbe solo ulteriore confusione rispetto a ciò che potrebbe risolvere e sanare. Ciò ch’è, invece, necessario è l’incremento di meccanismi di consultazione e incontro; il Sinodo dei vescovi è solo uno di questi. Penso che modalità d’incontro meno centralistiche e meno spettacolari siano più fruttuose, poiché è possibile una discussione più intensa, poiché la pressione esterna è minore e poiché possono svolgersi, appunto, più tranquilli processi di maturazione. Per la mia sensibilità, oggi si dovrebbero piuttosto ricercare ulteriori forme per mettere poi in collegamento questi contatti di natura regionale. Così nei fatti si compirebbe a lunga scadenza qualcosa come un Concilio davvero ecumenico, ma in una più tranquilla modalità di maturazione e di sviluppo storico.
(Traduzione di Alessandro Gamba)



Tratto da Tracce Littere Comunionis